Il Segno di Ariosto. Autografi e carte ariostesche nell'Archivio di Stato di Modena.

Lettere dalla Garfagnana (1524)

[28]Ariosto “furioso”

In questa lettera veniamo a conoscenza dei difficili rapporti che intercorrevano tra Ariosto e il Capitano della Ragione preposto a redimere le controversie giudiziarie. Ad Ariosto era stata concessa dal Duca la possibilità di giudicare insieme al Capitano per far sì che i sudditi non fossero costretti a pagare i dispendii de la iustizia ossia le spese processuali, ma questa concessione era stata revocata da lì a poco, evidentemente per le pressioni dello stesso Capitano che temeva di veder ridotto il suo potere. Ariosto si abbandona ad una lunga protesta contro il Capitano, descritto come persona ambiziosa e avida, e con cui aveva avuto non pochi problemi circa le reciproche attribuzioni in varie questioni. Il Nostro non è tanto interessato al danno economico che questa vicenda gli arreca, quanto a quello morale: la revoca dell’incarico lo colpisce nell’onore anche perché la notizia della sua nomina era già circolata. La lettera si chiude con un appello accorato da parte di Ariosto che chiede al Duca di cambiargli incarico e destinazione.

«Io semp<re ubidirò a vostra excellentia>, o vengamene honore o biasmo, pur io dirò questo: ch'io non havuto consideratione in quanto vilipendio mi sia per porre vo<stra excellentia pur di> satisfare alla ambitione et avidità del capitano, il quale non s<i accontenta di> far solo l'officio suo e buona parte del mio, ma vorebbe che <si facesse a lui> ricorso d'ogni cosa, né io facessi alcuna cosa se non con lo ter<mine che lui mi> dessi, e mai non cessa d<i> smaccarmi ne l'honore dove possa: <dove invece mi> smacca nel guadagno, ne tengo poco conto. […] Vostra excellentia può ben vedere quan<ta vergogna me> n'habbia da seguire, maxime che'l capitano farà questa cosa in a tutto il mondo che m'habbia fatto parere una bestia»
«E perché vostra excellentia non creda che questo habbia ad essere lungo tempo, s<i> ricordi che a' sette giorni dei febraio proximo saranno compiuti <dui> anni ch'io sono in questo officio; il quale volentieri muterei in uno dove io fossi più vicino a quella, quando con sua bona gratia <p>otessi farlo, come sarebbe il commissariato di Romagna, ché <per q>ualche pratica ch'io ho pur imparata qui in Grafagnana, mi daria <da sperar>e di far meglio quello officio ch'io non ho saputo far questo»

 

          [29]Tratti del banditismo in Garfagnana

Ariosto riporta al Duca le angherie perpetrate dai banditi, guidati da un tale Donatello, ai danni di un poverhomo, suggerendo che potrebbero essere i delinquenti della banda del Silico a cacciare i malviventi in vece dei soldati ducali; riferisce inoltre di un gruppo di balestrieri al quale è stato negato l’accesso ad una canonica nella quale avevano trovato rifugio i fratelli di Moro dal Silico. Il commissario si muove alla volta di tale canonica per dare manforte ai balestrieri, arrivando però troppo tardi e potendo solo constatare la fuga dei malviventi, e fa intuire al Duca quanto sarebbe opportuno che i banditi di Cicerana e del Silico non sconfinassero fino a Castelnuovo, limitandosi ad occupare i territori di loro ‘spettanza’. Colpiscono alcuni elementi di spicco: in primis, la possibilità che un gruppo di banditi possa svolgere le funzioni del braccio armato del potere ducale nel contenimento di un’altra banda criminale; poi la connivenza (del resto già evidenziata in altre lettere) fra religiosi e malviventi, che frustra spesso i tentativi di intervento del commissario; in ultimo, la considerazione sul fatto che i banditi del Silico dovrebbero reputarsi soddisfatti di essere lasciati stare nei loro territori, ciò che farebbe quasi pensare ad un tacito patto di non disturbo reciproco.

«Donatello con parecchi banditi è in quella terra [Cicerana], […] se queli d<al> Silico che voriano la gratia da V.S. facessero quello che g<ià> s’hanno proferto, di cacciar li altri banditi, questi ribaldi non s’ardiriano di stare in Cicerana» «li balestrieri hoggi erano iti così a solazzo a piedi <alla> Pieve […] e volendo andare <alla c>anonica, fu loro asserato l’uscio incontro da questi fra<telli del> Moro dal Silico banditi»
«Io m’ero mosso con questi di Castel<novo> per andarlo a soccorrere [il Capitano], e quando son stato fuor del b<orgo> mi è vennuto un balestriero all’incontro che mi ha detto <che il> prete per un uscio di drieto li ha fatti fuggire»

[30]Una lettera in tono giuridico

In questa missiva piena di riferimenti burocratico-amministrativi vengono riportati gli sviluppi della causa fra Pier Morello e il Pisanola. In particolare, nella descrizione della procedura seguita da Ariosto ad illustrazione del suo corretto operato, l’andamento elencativo, unitamente al reiterato riferimento all’oggetto in questione (la gabella), ricorda quasi il tono di un atto giuridico o notarile. Emergono inoltre gli stratagemmi messi in atto dai contendenti nella speranza di avere migliori possibilità di vincita della causa, quali la richiesta che il processo sia avocato prima a Lucca (da parte di Ariosto) poi a Ferrara (da parte di Morello), nonché la difficoltà dei garfagnini ad emettere sentenze contro concittadini precedentemente in carica nelle magistrature locali, assieme al supremo potere decisionale del Duca a cui tutte le questioni, in ultima istanza, sono demandate.

«E perché vostra excellentia non creda che la <colpa sia> mia, io le fo intendere come havendo io chiamato li <quattro> deputati sopra la gabella […], e ben veduti e considerati li capitoli della gabella, <e p>igliato informazione da tutti quelli che per li tempi inanzi erano stati <cond>uttori di essa gabella, e da quelli c’haveano il ricordo di poi <che t>al gabella fu constituita».
«<Gli> homini di Castelnovo malvolentieri vengono a dar <sententia contra> li quattro che erano l’anno passato, per non far danno a <l’una parte o> a l’altra»
«Pur quando vostra excellentia mi liberi ch’io sententij <secondo> la prima commissione, cioè secondo il parere de li quattro, io e<xpedirò la> cosa subito».

[31]I “mali effetti” del banditismo

Ariosto descrive gli eventi di Garfagnana in seguito al passaggio delle soldatesche di Giovanni dalle Bande Nere. Approfittando del clima di incertezza e della grazia ducale, il bandito Pierino Magnano e i suoi uomini hanno ripreso le loro malefatte: colpisce in particolare l’estorsione ai danni di un cappellano e il tentativo di uccidere il prete suo padrone, salvato poi dall’intervento degli abitanti di Castiglione. Il clima dipinto dalle parole del commissario è fosco: colpisce l’omertà di cittadini che si recano nascostamente presso di lui per denunciare soprusi ma che possono solo piangere per timore di rappresaglie e ritorsioni. Dopo il giudizio veemente di Ariosto, che vorrebbe fare impiccare tutti i banditi, la lettera si chiude con la notizia della morte del prete di Soraggio, criminale della peggior specie, il cui ordine di cattura era arrivato da papa Clemente VII. Il tono della lettera è particolarmente amaro: Ariosto «tocca con mano» i «mali effetti» del banditismo e si sfoga con un lessico particolarmente rustico e tranchant, come se la parola potesse sopperire all’inefficacia dell’azione di governo.

«a un cappellano d’un prete hanno ti<rato> tanto li coglioni che gli hanno fatto pagare otto ducati; po<i hanno> trovato il padrone, ma quello si è posto sulle gambe, e fugg<ito> fin a Castiglione: e se [...] non saltava<no> fuori in suo soccorso, lo amazavano»
«io <ho> desiderio di havere questi ribaldi e di farli sùbito, senza udi<re> altro, impiccare; […] il vedere succedere ma<li> effetti mi fa credere e toccare con mano questo che hora io scr<ivo>»
«il prete da Soraggio […] che ad instantia <e comm>issione di papa Clemente era stato preso […] hor hora è morto […] e sta ben morto, perché era una mala <bestia>, e teneva in grandissima paura tutta Soraggio, e stupra<va d>onne, e dava ferite e bastonate, et ogni dì n’havevo <richia>mi».

[32]Suggerimenti per la manutenzione delle rocche

Ariosto riporta il tentativo andato a vuoto, da parte del capitano di Reggio, di catturare dei banditi asserragliati nella chiesa di Soraggio: il commissario stesso si muove per portare aiuto ma per strada riceve una missiva che lo informa della cattura del figlio e del nipote di Bastiano Coiaio, criminali di basso lignaggio, e della fuga dei ben più temibili Battistino Magnano e Margutte da Camporgiano. Il fallimento dell’impresa viene deprecato con un tono particolarmente dispiaciuto, e non tarda ad insinuarsi il sospetto che il Capitano preposto all’azione abbia fatto in modo che i banditi si avvedessero dell’arrivo del suo manipolo d’uomini. Emerge poi come Ariosto sia particolarmente attento alla situazione delle fortezze strategiche situate nel territorio e non esiti a far presente al Duca i provvedimenti che sarebbero da prendere per le varie rocche: necessario è il rafforzamento della rocca di Camporgiano e di altre rocche strategiche e al contempo la distruzione di quelle abbandonate, onde evitare che diventino covo di banditi. Il Servitor consiglia inoltre al Duca, con una certa fermezza, di rigettare le domande di grazia (che gli sarebbero giunte di lì a poco) dei banditi che hanno difeso il paese nel passato pericolo dell’invasione da parte dell’esercito di Giovanni dalle Bande Nere.

«<Hie>r sera fui alle Verugole, e trovai quella ròcca forni<ta solo di tutti> li disagi […] La provision più necessaria, che è di fare murare una porta che non è molto importante, che serà più sicura che far di novo, perché è marza e guasta, e far conciar la cisterna, far<ò prim>a ch’io mi parta di qui»
«Ma riparato e provvisto <a queste> tre ròcche, Verugola, Campno e Sassi, meglio sar<ia> minar l’altre, o smantellare e aprire di sorte che band<iti> o altri nimici non vi potessono alloggiar dentro; ma <me>glio e più pace del paese saria a guardarle»
«Se questi ribaldi fosson banditi per uno homicidio o dui soli, vostra extia potria compiacere […] <ma> il volere far gratia ad amazatori publici, assassini, e che non vivon se non di porre taglie, se tutto il mondo ne preg<as>se v. extia, quella non lo dovria fare».