Il Segno di Ariosto. Autografi e carte ariostesche nell'Archivio di Stato di Modena.

Lettere (1510-1513)

       [4] Rapporti a Ippolito

Ippolito è a Parma, appena scomunicato da Giulio II per aver mantenuto l’alleanza con Luigi XII. Dopo tre missioni diplomatiche a Roma, Ariosto si trasferisce a Reggio assediata dalle truppe ispano-pontificie e da lì scrive al cardinale i resoconti degli avvenimenti. Il ‘servitor fidelis’ si trova nella zona fortificata di Reggio a colloquio col capitano Ettore Sacrati quando viene avvisato da Lorenzo de’ Pasti, familiare del cardinale, della presenza di una spia che lo informa delle mosse dell’esercito ispano-pontificio.

        [5] Le trattative con Alberto Pio di Carpi 

Ariosto tenta di condurre alla causa degli Este Alberto Pio di Carpi, suo condiscepolo alla scuola di Gregorio da Spoleto. La trattativa, cominciata durante il soggiorno romano di Ariosto, viene qui ripresa anche con l’intento di ottenere man forte di fronte agli attacchi dell’esercito pontificio sulle strade di San Martino e di Correggio che portano a Carpi. Ariosto ricorre qui a strategie comunicative estremamente caute e prudenti nell’eventualità (sempre da tenere in conto ai tempi) che le lettere indirizzate a Ippolito non finiscano in mani nemiche. Si noti l’uso tecnico del linguaggio militare, come ad esempio il termine stradiotti che indica i cavalleggeri dell’esercito pontificio.

        [6] Apprensione per un messo sparito

Ariosto è in apprensione per le sorti del messo inviato ad Alberto Pio, come si nota dai toni di affettuosa preoccupazione che emergono all’inizio e alla fine della lettera. La lettera presenta una mescolanza suggestiva del registro affettivo alternato a quello burocratico  e militare affidato alle formule latine: si noti l’etcetera come spia di una cauta reticenza per cui non si entra nelle informazioni dettagliate. Tornando a Reggio, il Commissario si imbatte in una squadra di francesi che avevano catturato circa trenta uomini d’armi, soldati a cavallo e cavalleggeri.

       [7] Le necessità della guerra 

Ariosto chiede al Cardinale aiuto per provvedere ai bisogni di approvvigionamento dell’esercito francese, spesso costretto ad angariare gli abitanti dei paesi vicini. Era infatti difficile trovare persone del luogo disposte ad approvvigionare i soldati in campo perché spesso venivano mal pagate o vessate. Necessitavano dunque rifornimenti di pane, di vino, di carne (beccari), di grano (spelte) e persone che scavassero trincee. Si noti la richiesta al Cardinale perché preghi Zan Boiardo (cugino dell’autore dell’Innamoramento de Orlando) di far condurre del vino in campo, per esserne nel suo paese «gran quantitade e proximi al campo». Di grande interesse l’informazione che si ricava dal finale della lettera sulla diserzione di 500 soldati spagnoli passati dalla parte degli Este.

         [8] «Son rimaso senza un soldo»

Ariosto rivolge un’accorata preghiera ai due segretari del cardinale Ippolito perché convincano Sua Signoria a pagargli        lo stipendio dovuto per l’anno 1509, o almeno provvedano a risarcirlo con «roba». Egli, infatti, ha dovuto saldare alcuni      debiti ed è «rimaso senza un soldo». Necessita di abiti nuovi per non dover portare anche in estate l’unico abito invernale e tornare a Parma con l’usurata veste di cuoio (burrico de coro) suscitando l’ilarità generale («darei troppo a tutti vuj che ridere»). Raccomanda tuttavia che questa richiesta sia coperta dalla massima discrezione e non diventi di dominio pubblico, suggerendo per questo ai due destinatari un messaggio cifrato da scrivere sulla lettera di risposta a proposito delle decisioni del Cardinale. Da rilevare anche un’espressione (mettere al muro) che verrà ripresa nelle Satire (II 186).

 

[9]Un aspirante cortigiano tra gente poco cortese

Ariosto è arrivato a Roma per l’incoronazione dell’amico e compagno di studi Giovanni de’ Medici, salito al soglio pontificio col nome di Leone X. Con la consueta ironia, il Servus rivela l’astuto atto di vanità del non portare gli occhiali, motivo per cui il nuovo pontefice mostra di non riconoscere il poeta qui in veste di ambasciatore, che viene ascoltato distrattamente, ricevendo non maggior attenzione dai vecchi amici di un tempo assurti a incarichi di prestigio grazie ai favori del nuovo papa. Il poeta viene snobbato per i vestiti non adeguati alla magnificenza dell’ambiente e si lamenta per non riuscire a sfondare il muro di persone  e le innumerevoli porte che proteggono personalità di primo piano, come Bernardo Bibiena. Nella chiusa Ariosto, con icastica ironia, teme che venga scambiato per un comportamento scortese («mi acusassino di asinità») l’inadempimento di alcune favori richiestigli a cui non può dar seguito vista la scarsa considerazione di cui gode nella corte pontificia.