Il Segno di Ariosto. Autografi e carte ariostesche nell'Archivio di Stato di Modena.

Lettere dalla Garfagnana (giugno-luglio 1523)

[18]Un furto di bestiame per “ripresaglia”

Ariosto riferisce al Duca che alcuni fanti agli ordini di Gian Giacomo Cantello hanno ucciso una gran quantità di capi di bestiame a Frassinoro. I proprietari hanno provato a farsi risarcire delle bestie perdute ma, non riuscendoci, hanno rubato per ripresaglia dieci muli agli abitanti di Castelnuovo di Reggiana. Ariosto ha provato senza risultato ad evitare questa vendetta, riuscendo solo a farsi consegnare i muli. Chiede dunque al suo signore, per l’ennesima volta, di prendere alla svelta dei provvedimenti affinché la situazione non degeneri.

 «Quest'homini sùbito han fatto ripresaglia di 10 muli di alcuni che sono da Castelnovo di Reggiana, e sono per farla di quante robe di lombardi passeranno di qua. Io gli ho admoniti a non far ripresaglie [...]ma non li ho potuto persuadere che restituiscano li muli: pur ho fatto che li porranno in man mia» «Non mancherà per me, finché 'l male è fresco, di rimediare; ma senza l'aiuto e consiglio di Vostra Signoria non mi dà l'animo di farlo: in bona gratia de la quale mi raccomando»

[19]Un coniglio tra calabroni

Si tratta di una lettera a metà tra un resoconto sulla grave situazione in Garfagnana e uno sfogo al Duca, che suggerisce di frequente al suo commissario di essere più risoluto ma che, proprio a causa dei suoi continui richiami, non fa altro che rendere Ariosto più cauto e incerto. La lettera si apre con le lamentele per i continui omicidi nelle terre lucchesi, che hanno indotto Ariosto a proporre agli Anziani di Lucca di unire le forze per porre rimedio alla grave situazione; medesima proposta il Nostro ha fatto al capitano di Barga, ma finora né da una parte né dall’altra è uscito alcun buono effetto. Ariosto informa poi il duca sulla controversia riguardante i confini tra gli abitanti di Vagli e quelli di Pietrasanta, e tra i paesi di Gello e Vallico per l’avvenuta razzia di bestiame, per cui gli abitanti di Vallico continuano a lamentarsi e minacciano vendetta. Ariosto confessa al Duca che egli sarebbe certamente più fermo nelle sue decisioni se non fosse di continuo frenato dagli ammonimenti del suo signore che lo invitano invece alla prudenza: anche se fosse un leone, leggendo le lettere del Duca, diventerebbe un coniglio.

«ma io che homai cognosco la natura de li grafagnini […] ellego per minor danno e minor vergogna confortare li nostri a star con la testa rotta, e ricorrere a vostra excellentia per consiglio» «le lettere ch'ogni dì mi vengono da vostra excellentia sempre mi tolgono ogni ardire, e mai non sento altro se non che io vada destramente, e che io non attizzi li galavroni» «Queste lettere, et altre simili a queste, mi tolgono l'ardire, e mi fanno havere quel tanto rispetto e quel che mi fa essere tenuto troppo timido, che vostra excellentia in me riprende per la sua lettera: ché da un lato haver poca forza e poco braccio all'officio, et essere capo de subditi che non sono (cioè questi altri a chi non s'appertiene) per seguitarmi in alcuna impresa dove si maneggi arme; e da l'altra parte essere tuttavia admonito e fatto pauroso da le lettere di vostra excellentia, e sempre dettomi ch'io soporti e ch'io proceda con prudentia e dexterità, son sforzato che s'io fossi un leone io diventassi un coniglio»

 

[20] Un nubifragio provvidenziale

In questa lunga lettera ricca di toponimi (Pietrasanta, Vagli, Capella, etc…) Ariosto torna ancora sulla questione dei confini tra la Garfagnana estense e Pietrasanta, che egli considera di primaria importanza e che invece il Duca ha troppo a lungo sottovalutato. Il temporeggiare dei signori di Ferrara, spiega il Nostro, è preso in queste terre come segnale di pavidità e viltà. Proprio per questo, vincendo la sua ritrosìa, Ariosto decide infine di accondiscendere alla richiesta del capitano di Pietrasanta e di recarsi a Vagli per discutere dei confini tra i due territori. Ma un provvido nubifragio («il più horribil tempo che fosse già dieci anni in questo paese») costringe Ariosto a rimanere chiuso nella propria locanda e a rimandare di un giorno l’appuntamento, permettendogli fatalmente di scampare ad un esercito di uomini armati con cui il capitano voleva proditoriamente risolvere la questione con la forza, piuttosto che «vedere di equità». Come dimostra questo aneddoto, che avrebbe potuto ridurre a mal partito il prudente Ariosto, la questione territoriale è della massima importanza per gli Este e il Duca non deve temporeggiare ulteriormente: il territorio oggetto del contendere confina infatti con lo stato della marchesa di Massa, Ricciarda Malaspina, attraverso le cui terre Ferrara pratica il commercio del sale ora senza dazi (dazi che sarebbero invece pretesi dai fiorentini nel caso si dovessero impossessare di quelle terre).

«Fosse naturale accidente, o fosse volontà di Dio, a quell'hora si levò il più horribil tempo che fosse già dieci anni in questo paese, sì che le fulmini amazzaro quel giorno homini e bestie, e fu la maggior pioggia e la più lunga che da questi tempi fosse mai: durò senza intermissione tutto il giorno e gran pezzo de la notte»

«[il capitano di Pietrasanta] vi era venuto con forse ducento persone armate, e vi haveva appresso cento schoppitieri, et havea mostrato di venire più per combattere et ottenere per forza, che per vedere di equità»

[21]Il contagio di peste

Dopo aver riportato al Duca una fitta serie di comunicazioni di servizio (sempre inerenti le questioni territoriali), Ariosto confida al signore di essere molto preoccupato per la possibilità di diffusione della peste, in quanto, contrariamente alle sue disposizioni, molti contadini che hanno lavorato nella campagna romana o in Maremma sono riusciti a tornare nelle loro case in Garfagnana, trasmettendo spesso il morbo ai loro familiari. Quanto all’ordine pubblico, il commissario ripete al Duca che per domare la Garfagnana basterebbe qualche decina di fanti da affiancare ai suoi balestrieri: non c’è infatti bisogno di mettere a ferro e fuoco un’intera regione per qualche manipoli di banditi e banditelli (giottoncello). Antonio da Cento, il comandante dei balestrieri, ha infatti chiesto a Giovanni Ziliolo una ventina di fanti per prendere i banditi che si trovano in Cicerana, i quali però, avvertendo il pericolo, hanno trovato rifugio in Lombardia.

«Noi semo stati in gran pericolo circa la peste» «Qui non è alcuna terra ribelle che si bisogni brugiare o saccheggiare, né alcuno capo di parte c'habbia séguito di 200 o di 300 homini, sì che per questo sia bisogno mandare exercito di qua. Qui sono quelli del Costa che sono circa sei; li figlioli di Pelegrino dal Silico altretanti, e qualche altro giottoncello che li séguita da Barga e da Somocologna, che senza l'aiuto de' lombardi non ponno far gran squadra; e quando hanno havuti li lombardi con loro, cioè quelli Pacchioni et alcuni da la Temporia, non sono arrivati a cento, ma spesso sono stati in trenta o in quaranta» «impiccati che fossino 10 ribaldi di questo paese, il saria tutto risanato»

 

[22]Non poter “fare altro che di riferir male” 

Ariosto presenta al Duca l’ennesimo rapporto di cose che non vanno in Garfagnana: Giovanni Ziliolo si è rifiutato di concedere venti dei suoi fanti che sarebbero stati utili per sconfiggere i fratelli di Moro del Silico in Cicerana; mancano denari per pagare i balestrieri, in quanto gli abitanti delle Terre Nuove e della Vicaria di Sopra, non sentendosi adeguatamente protetti dai banditi, si sono rifiutati – ed è già la terza volta – di pagare al camerlengo di Camporgiano la loro parte; nessun messo ha voluto portare ai parenti degli assassini di Ponteccio il mandato di comparizione davanti al commissario. A Camporgiano è addirittura impossibile arrestare i banditi perché la folla lo impedisce.

«Appresso, certi banditi che sono assassini, e sono dui deserti che non hanno né credito né séquito, stanno tuttavia a Camporeggiano, e non solo quelli officiali non si pongono alla prova di pigliarli, ma pur mai non me n'hanno scritto: il che intendendo io per altra via, vi mandai li balestrieri, e giungendo improviso si trovò che uno di questi tristi, detto il Frate, giocava a carte con uno da Camporeggiano col circulo di tutta la terra intorno, e come li balestrieri si scopersono lo ascosero, e lo fêro fuggire in un campo di canape: e tutti lo vedevano e sapevano, né fu alcuno che volesse cennare alli balestrieri, e fra gli altri ci era ser Costantino da Castelnovo ivi notaro, il qual poi si excusa che non vole essere amazzato.»

«M'incresce che par che qui io non habbia da fare altro che di riferir male: pur lo fo perché tutta la colpa, se le cose non vanno bene, non cada sopra di me»