Il Segno di Ariosto. Autografi e carte ariostesche nell'Archivio di Stato di Modena.

Ariosto commissario in Garfagnana

Quando Ludovico Ariosto venne inviato in Garfagnana da Alfonso I d’Este in qualità di commissario, la situazione politica e militare era particolarmente grave. Dopo la scomunica del duca e l’invasione pontificia di Modena (1510) e di Reggio (1512), anche la Garfagnana aveva subìto l’attacco delle truppe papali, ma a causa di un’ostinata resistenza, Giulio II aveva preferito ritirarsi, lasciando il territorio esposto alle mire dei Lucchesi. Fu solo nel 1522 che la Garfagnana poté ritornare sotto il controllo estense: il 20 febbraio l’Ariosto si installava a Castelnuovo, nel castello oggi intitolato al suo celebre commissario (Rocca Ariostesca). Prima che fosse sostituito dal termine governatore, il commissario indicava il rappresentante del principe in quei territori che, pur godendo di un’ autonomia di origine medievale, erano tenuti a ospitare una personalità che facesse da ‘interfaccia’ tra i poteri locali e la corte ferrarese ed esercitasse le prerogative sovrane in loco sulla base di un costante flusso di informazioni veicolate attraverso la corrispondenza. La delicata missione in Garfagnana era caratterizzata da una continua negoziazione con le autorità locali e da una consultazione permanente con il duca: determinante era il rispetto delle autonomie cittadine e rurali, specialmente sul versante della giustizia, dell’ordine pubblico, dell’impiego delle risorse. Ma il compito più difficile fu quello di combattere le molteplici bande di malfattori organizzate dai signori locali e sostenute dall’omertà della popolazione. A pochi mesi dall’installazione a Castelnuovo, il 22 giugno 1522 Ariosto segnala la spocchia con cui gli abitanti della vicaria di Camporgiano si comportano nei confronti del suo capitano, contestato per aver giustiziato un emerito ribaldo e per aver chiesto il rimborso delle spese processuali: «Le troppe gratie che vostra Excellentia fa a questi homini de la Vicaria di Camporeggiano li inasinisce, ché più honesto vocabolo non so loro attribuire, e nessuna cosa son per far mai se non per forza» [10]. Nel settembre successivo, un grave fatto di sangue avvenuto a Ponteccio induce Ariosto ad emettere una ‘grida’ di cattura a carico di una masnada attiva in quei luoghi e a informarne il commissario fiorentino di Fivizzano e il governo di Lucca, per unire le forze in vista di una rapida cattura (lettera del 13 settembre 1522).

«La spavalderia dei banditi è tale che non soltanto non cessano di far ogni dì assassinamenti e por taglie a chi lor pare, ma hanno ardimento di mandare a dire ad alcuni qui di Castelnovo che se non mandano loro certi denari che domandano, li verranno a tagliare a pezzi fin in questo castello: e forse havriano ardire di farlo, perché hanno chi fa lor spalle e li nutrisce e difende.»

Ariosto allude all’appoggio di cui questi banditi organizzati in fazioni rivali godono da parte di personalità ben conosciute e rispettate: Bastiano Coiaio, Pierino Magnano, Moro del Silico. Il primo dei tre, Coiaio, chiede grazia per i delitti commessi (lettera del 5 ottobre 1522): Ariosto è contrario e anzi ingiunge ai suoi sottoposti di trattenerlo in prigione, ma senza alcun risultato, perché Bastiano è da tutti temuto, e starebbe persino tentando di organizzare due bande a Camporgiano e a Castelnuovo per garantire la sicurezza pubblica – e per di più con la pretesa di riceverne compenso. Del resto, i balestrieri estensi, i soldati alle dirette dipendenze del commissario, esigono paga adeguata, che da Ferrara giunge invece con il contagocce, tanto da indurre i militari a contrastare flebilmente, se non persino a collaborare, con tali bande malfamate [12-13]. Il problema è complesso: Ariosto suggerisce alla Corte ferrarese e alle autorità garfagnine la costituzione di un corpo di due o trecento fanti di leva locale, di minor impegno economico [14].

 

Ma il duca Alfonso ha bisogno di ‘tener buoni’ i garfagnini: una repressione troppo dura potrebbe indurli ad allearsi con i nemici degli Este. Si spiegano in tal modo le ambiguità con cui il duca risponde alle richieste di fermezza da parte dell’Ariosto: come quando Moro del Silico, poc’anzi citato, nel novembre del ’52 si beffa del commissario poeta sventolandogli sul naso «la gratia che vostra Excellentia gli ha fatta per un certo homicidio» (lettera del 19 novembre 1522). Ariosto è infuriato e sbotta irato:

«Se ’l Moro mi torna più dinanzi, io lo piglierò, e farò che ’l Capitano lo punirà come merita il delitto, senza guardare a gratia che gli habbia fatto vostra Excellentia. [...] Se non torna, parendo a vostra Excellentia, gli annullerei la gratia.»

È un teatrino ricorrente: di fronte ad atti di violenza, anche efferata, Ariosto reclama durezza, mentre il duca preferisce invece abbozzare. Come nel caso di certo Leonardo da San Romano, condannato dal Capitano di Camporgiano e prontamente graziato dal duca nello stesso novembre del ’52 [12]. Per non parlare, poi,  del personale giudiziario, di scarsa qualità: Ariosto denuncia la presenza in tutta la Garfagnana di un solo giudice fornito di laurea in giurisprudenza, tal Achille Granduccio, sino a pochi giorni prima Iudice de’ Maleficij a Ferrara. Quanto ai salvacondotti, cioè agli attestati rilasciati dalle autorità ducali per consentir agli imputati di circolare liberamente nel territorio al fine di compiere atti utili all’esito del processo, l’uso che se ne fa è controproducente. A volte l’imputato ne dispone per concordare la ‘pace’ o il ‘perdono’ con la famiglia/fazione ‘nemica’, requisito richiesto per l’ottenimento della grazia (lettera del febbraio 1524). Ma l’abuso è sempre dietro l’angolo: nell’aprile del ’23, i soliti banditi di Ponteccio chiedono un salvacondotto, al che l’Ariosto si oppone e scrive al duca per indurlo a una maggiore intransigenza:

«se non ci si fa qualche buona provisione, questa provincia anderà di male in peggio, et a vostra Excellentia non resterà altro che ’l titolo di esserne signore, ché la signoria in effetto sarà di questi assassini e dei capi e fautori c’hanno in questa provincia e specialmente in Castelnuovo» [14].

E poi vi è foro privilegiato ecclesiastico. Nell’aprile del 1523, un chierico ordinato in sacris, tale Iob, in seguito a una tresca con una ragazza e alla relativa denuncia sporta dalla madre, tenta di uccidere quest’ultima: nonostante la condanna, il vescovo di Lucca chiede e ottiene la inhibitoria, vale a dire il non luogo a procedere connesso al privilegium fori vantato dagli ecclesiastici, con grande scorno dell’Ariosto, che scrive al duca:

«Questa cosa è di mal exempio […] e se non fosse che io temo le censure ecclesiastiche per haver beneficio, io non guarderei che costui fosse prete» (lettera del 17 aprile 1523).

La Corte ferrarese non cambierà orientamento, in altri e altrettanto efferati casi. E se l’Ariosto continuerà a sostenere il regolare corso della giustizia e si adopererà per giungere a condanne emesse sulla base dei documenti raccolti secondo acta et probata (lettera dell’11 luglio del 1523), il duca preferirà invece dispensare clementia e gratia (lettera del 25 aprile 1523), sollecitategli mediante supplicatione (lettera del 15 giugno 1523). E l’Ariosto sconsolato: «se una volta non si comincia a castigare, li tristi in questo paese moltiplicheranno in infinito» [17].

E che dire dell’inaffidabilità del capitano di Castelnuovo? Ariosto è esasperato, non tanto per i sotterfugi con cui vengono intascati guadagni indebiti («dove […] mi smacca nel guadagno, ne tengo poco conto»), quanto piuttosto per il disonore e il discredito che gliene deriva («mai non cessa di smaccarmi ne l’honore dove possa») [28]. Da qui la richiesta, avanzata nel gennaio del 1524, di lasciare la Garfagnana e di essere indirizzato ad altra sede. In realtà il servizio di Ariosto a Castelnuovo si protrarrà sino al giugno 1525: la Garfagnana resterà impressa indelebilmente nella sua memoria come una terra legata a un’esperienza sgradita e infelice.

Elio Tavilla