Il Segno di Ariosto. Autografi e carte ariostesche nell'Archivio di Stato di Modena.

La fantasia e l'ingegno: macchine teatrali e spettacoli

[b] Lo stemma estense e due aquile ad ali spiegate campeggiano su questo bizzarro mezzo di trasporto, slitta o piccolo battello, dominato da un meccanismo a pale che possiamo immaginare azionato dal movimento. Il disegno è costruito con la sfrenata e brillante fantasia combinatoria caratteristica dell’arte che fiorisce nelle corti di pieno Cinquecento, capace di fare concorrenza all’immaginazione di Lodovico Ariosto.

 

[c] Lo splendido disegno che segue raffigura un’imbarcazione a tre alberi dotata di remi, di cannoni a prua e di un ornato cassero sormontato da una lanterna a poppa, visibile a sinistra in primo piano. A metà fra un brigantino e una galea, questo vascello ci ricorda che la Ferrara estense era anche città d’acqua, lambita da un ramo del Po. Ai tempi di Ariosto come alla fine del Cinquecento, grazie a un sistema di canali i duchi erano soliti navigare dalla loro capitale fino a Venezia sui bucintori, navigli sontuosi come quello qui raffigurato, che attraverso i simboli araldici - aquile e gigli - annunciavano a distanza la gloria della casa d’Este.

[d] Il disegno raffigura un’imbarcazione leggera che costituisce un autentico pastiche: pur di dimensioni molto contenute, presenta ben otto remi per lato e una dotazione di cannoni, cui fanno da complemento l’edicola al centro, l’elegante baldacchino teso a poppa, e due aquile ad ali spiegate, che con i gigli rimandano apertamente allo stemma estense. La presenza della barra, che esce fantasticamente dalla bocca spalancata del mascherone, indica che il piccolo naviglio era privo di propulsione e destinato ad essere trainato. Si potrebbe trattare di uno studio per i festeggiamenti allestiti durante il carnevale, o in occasione di cerimonie quali matrimoni, battesimi o ingressi trionfali di ospiti illustri (si noti che i gentiluomini ritratti sono in maschera). Questa bellissima invenzione è un’eloquente testimonianza della vita di corte. Cronache e descrizioni di queste celebrazioni rimandano l’immagine di un mondo incantato e meraviglioso, destinato a esaltare la magnificenza del signore e ad ammaliare i sudditi col proprio riflesso abbagliante.

 

[e] Nel canto XLIII del Furioso Ariosto evoca in due celebri ottave l’isola di Belvedere come «la più gioconda […] di quante cinga mar stagno o riviera», tanto bella «Che v’avria con le Grazie e con Cupido / Venere stanza e non più in Cipro o in Gnido». Questo prezioso vascello, nel quale domina il gusto per l’ornamento e per i motivi decorativi accostati in piena libertà senza timore di cadere nell’inverosimile, sembra destinato a esaltare proprio il piccolo Cupido bendato pronto ad accendere il sentimento amoroso, grande motore delle vicende narratenel poema.

 

I due disegni [f-g] sono progetti per una macchina teatrale, e svelano quali meccanismi fossero posti in essere per stupire il pubblico dando vita a creature gigantesche, fantastiche o mostruose, all’apparenza in grado di muoversi sulla scena autonomamente. In questo caso un’armatura in assi e doghe di legno costituiva lo scheletro di un drago dalla coda possente e avvolta su se stessa a creare una scenografica spirale. Era un cavallo nascosto sotto la struttura a farla muovere, trascinando una sorta di calesse a pianta trapezoidale e privo di ruote che probabilmente avrebbe prodotto, scivolando, l’effetto di un incedere cadenzato e solenne. Un tratteggio a penna disegna il muso rostrato e le fauci spalancate a mostrare la lingua, oltre a dare un’idea della terminazione della coda e delle creste che avrebbero ricoperto il dorso del drago. In una suggestiva veduta del torneo intitolato L’Isola beata, organizzato dal duca Alfonso II nel 1569, compaiono mostri simili a questo, a cui l’immaginario della corte estense, nutrito dai poemi cavallereschi, era particolarmente incline.

 

[h] Questo progetto per il soffitto di un ambiente rettangolare si limita a studiarne la metà, come d’abitudine nei disegni d’architettura e di decorazione, tracciando solamente i profili della parte restante, naturalmente simmetrica. Al centro si immagina una sorta di lucernario protetto da un pergolato, e lungo il suo perimetro vasi di fiori sono collocati a creare bei giochi di prospettiva. Sui lati, entro pannelli con motivi a grottesca, l’autore alterna un’apertura a serliana e una a tre archi retti da sottili colonne e ricoperti da rampicanti, che introducono vedute urbane. Entrambe molto simili a scenografie teatrali contemporanee nell’accostamento degli edifici come nel taglio prospettico, queste vedute rimandano al grande successo del teatro a Ferrara, di cui fu protagonista anche Ariosto, autore di commedie molto apprezzate.

[i] La lettera, inviata nel 1519 dall'ambasciatore Bagnacavallo al duca di Ferrara Alfonso I, contiene un interessante accenno all'opera di Raffaello, vista dal vivo dallo scrivente che ne comunica i contenuti al curioso interlocutore:

«Ho veduto li schizi per megio di un suo creato [...] uno è la catia (=caccia) di Meleagro l'altro un Triompho di Bacho, ben letissimi. Fin qua altro non so e fatto pur di bacho di esso Raphalle (sic) ho promission sopra le fede sua che ambi dui quadri sarano expeditti a la Festa de la pascha proxima.»

Alfonso è in realtà parte di causa, perché da tempo sta appunto sollecitando a Raffaello due dipinti sulla caccia Meleagro e sul trionfo di Bacco, di cui l'artista ha realizzato alcuni schizzi per il duca sottraendosi però all'esecuzione dell'opera maggiore (tanto più che la sua morte, avvenuta nel 1520, impedirà il compimento della commissione). É uno dei tanti episodi di 'spionaggio' artistico che costella i carteggi di ambasciatori del Cinquecento.