Il Segno di Ariosto. Autografi e carte ariostesche nell'Archivio di Stato di Modena.

Il Segno di Ariosto

Dietro la straordinaria architettura del Furioso c’è un sogno di cui possiamo congetturare il movimento originario, cogliendo in filigrana il fermento artistico e culturale che ha dato corpo a un’opera letteraria che mai disvela fino in fondo il segreto della propria forza inventiva; dietro il segno di Ariosto - ovvero la scrittura autografa del poeta viva e palpitante - si rivelano i tratti autentici e inequivocabili dell’uomo sospeso tra desideri, incertezze e inquietudini, tra la spinta persuasiva della ragione e le intermittenze del cuore. Del Furioso rimangono, com’è noto, alcuni frammenti autografi che ci permettono di entrare nel vivo dell’officina dell’autore, di seguire i movimenti della scrittura e i processi di elaborazione stilistica e linguistica della parola letteraria che accompagnano la complessa orchestrazione del poema dal 1516 al 1532. Tra i versi delle ottave, tuttavia, il volto del poeta, così abilmente effigiato dal pennello di Tiziano, rimane sullo sfondo, si scorge in trasparenza, per lasciare all’opera il proprio autonomo percorso d’identità artistica e di fruizione.

 

Solo la scrittura delle lettere - di cui qui si traccia un itinerario che attinge al nucleo archivistico più consistente degli autografi, quello dell’Archivio di Stato di Modena - ci consegna evidente e tangibile il profilo del poeta dagli anni 1509-1510, precedenti alla princeps del poema, fino a quelli difficili e impervi dell’esperienza garfagnanina; traccia indelebile di questo volto, che ha i contorni certi della storia, è la firma stessa dell’autore - nelle varianti latina e volgare (Ludovicus Ariostus, Ludovico Ariosto). Tale firma suggella in calce carte spesso solcate da un calamo affannato e riempite tra difficoltà e disagi a cui cercare rimedio con l’ausilio della ragione e talvolta dell’ironia, con uno sguardo antropologico sulle verità effettuali e sulle enigmatiche vicende dell’umano che nulla ha da invidiare alla penna del Machiavelli politico o del Manzoni romanziere.
A fronte dei numerosi epistolari elaborati ad arte da tanti autori cinquecenteschi sul modello petrarchesco (si pensi solo a Bembo), queste missive ariostesche hanno carattere estemporaneo e contingente, nascono dalla magmatica urgenza degli eventi, sono redatte in una scattante corsiva cancelleresca (che abbandona le belle forme della corsiva umanistica) e si caratterizzano per le precise finalità “informative”; non stupisce, dunque, che il poeta non ne trattenga per sé una copia, non ne conservi la minuta preparatoria e si attenga a diffusi e condivisi usi formulari e retorici di certe pratiche di scrittura epistolare in cui si contemplano abbreviazioni rituali, oscillazioni grafiche, linguistiche e interpuntive. La stesura delle lettere si intreccia al laconismo ordinato del registro dei conti delle spese sostenute per gli stipendi dei balestrieri, redatto dalla mano diligente di Ariosto tra il 1522 e il 1525, altro “gioiello” posseduto dall’Archivio di Stato di Modena, che trova in questa mostra l’adeguata collocazione e il meritato rilievo.
Eppure, tra le righe di queste epistole di “resoconti” spesso concitati, fa di continuo capolino la felicità della scrittura letteraria ed emergono a tratti certe soluzioni linguistiche e stilistiche che corrono parallele all’elaborazione del poema e ne anticipano alcune scelte riscontrabili nell’edizione definitiva del ’32. In ogni carta di queste lettere emergono i contorni dell’humanitas di Ariosto, ora preoccupato per la scomparsa di un suo messo (doc. 6), ora costretto a separarsi dalla sua amata bracca per i capricci di un cardinale (doc. 2) ora sconfortato dalle proprie ristrettezze economiche («son rimaso senza un soldo» doc. 8), e sempre mosso da compassione per i poveromini angariati dalla povertà o dalla prepotenza. Si legge sempre in controluce il disagio dell’intellettuale consapevole di non potere esercitare fino in fondo, nel groviglio enigmatico degli eventi e della ferinità degli uomini, il potere educativo e civilizzante della parola, di cui sente l’eco risonante e vana, come Orlando nel castello di Atlante («Non ho saputo dar altro che parole» lettera del 31 agosto 1523, doc. 24), ma non per questo, al pari di quanto avviene nelle ottave veloci e leggere del suo Furioso, rinuncia alle armi dell’ironia, come accade in una lettera romana del 7 aprile 1513 in cui descrive l’imbarazzo per i propri umili panni di fronte allo sfarzo chiassoso della corte pontificia (doc. 9). Come già l’Ariosto aveva rivelato a Mario Equicola in una lettera del 25 ottobre 1519, le ristrettezze economiche (le stesse che lo spingono ad accettare l’arduo incarico di commissario in Garfagnana) gli avevano da tempo messo altra voglia che di pensare a favole, e, con fatica, la sua fantasia dovette abbandonare le creazioni letterarie per concentrarsi sulla soluzione concreta di gravi problemi contingenti (io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del Signore nostro io possi accrescere le mie forze, per fare che almeno questi ribaldi abbian paura di me, lettera del 5 ottobre 1522). Le  celebrazioni ariostesche, sotto le cui insegne si colloca questa mostra, hanno inoltre offerto l’occasione per valorizzare altri importanti documenti conservati in questo Archivio, come l’unica lettera autografa conosciuta del commediografo Ruzante (di cui Pier Mario Vescovo fornisce qui una nuova edizione) dove si parla dell'Ariosto come abile ‘scenografo’, opportunamente esposta col corredo eloquente di straordinari disegni di tema teatrale del secolo XVI, provenienti dal medesimo patrimonio archivistico.
Le epistole (tra cui un inedito) di due celebri editori italiani del Furioso come Gabriele Giolito e Girolamo Ruscelli e di un tipografo spagnolo sono infine testimoni preziosi e rari della notissima fortuna editoriale italiana ed europea del poema.


Loredana Chines