Il Segno di Ariosto. Autografi e carte ariostesche nell'Archivio di Stato di Modena.

Le illuminazioni della scrittura. Ancora su Ariosto e la Garfagnana

Il fantastico è ovunque, per Ariosto: non soltanto negli amori, nelle cortesie e nelle audaci imprese di un tempo lontano che è, in controluce, quello vicinissimo dei contemporanei, ma persino nei luoghi disagiati della Garfagnana, dove egli giunse, come commissario generale dal duca di Ferrara Alfonso I d’Este, il «vigesimo giorno di febraio» del 1522, e dove soggiornò, frustrato e controvoglia, sino al giugno 1525. La regione, il cui nome è spesso reso dal poeta come «Grafagnana», e «grafagnini» i suoi abitanti – anche per un burlesco gioco di parole, come luogo dell’arraffo, della “sgraffigna”, delle malefatte? La storpiatura sembra in effetti riecheggiare i nomi dei diavoli di Dante -, gli era già nota dal 1509; c’era poi tornato nel 1512 da Roma, inseguito dagli emissari di Papa Giulio II nemico degli Estensi. È un paesaggio irto di borghi; un rustico inferno che distoglie il poeta dagli amori ferraresi e dagli amati studi; nel quale «senza il cor sereno», non gli è possibile «far da sé uscir iocunda rima o metro» (Satira IV), e che non susciterà mai una menzione diretta nell’Orlando Furioso, anche se certi scenari sembrano averne ispirato alcuni episodi. Per tutto ciò la Garfagnana non sembra un luogo della sua anima. Il custode del segreto dell’armonia è ora un uomo scasato e afflitto, un «coniglio» fra i «galavroni» alle prese con il feroce banditismo locale; e medita sulle proprie sfortune e su come porvi rimedio, lui che non ha mai avuto una «voglia avara», e che era ben «contento di quel stipendio che traea a Ferrara» (Satira IV).

Eppure, Ariosto un poco scrive, perché scrivendo «il duol si disacerba». Scrive soprattutto «fogli e spacci» per riferire i tristi casi della regione che governa, oltraggiata dalla natura e dai malandrini; e compone capitoli ternari di lontananza che mai avrebbe voluto scrivere (appunto la Satira IV). Non fanno per lui questi soggiorni pericolosi, mentre avrebbe più comodamente voluto viaggiare per libri e carte geografiche: come, straordinaria, la carta ‘del Cantino’, che è conservata presso la Biblioteca Estense di Modena e che presenta un planisfero immensamente poetico e ‘ariostesco’, con il mondo conosciuto che si va colorando e definendo, grazie alle scoperte dei contemporanei, davanti agli occhi ulissiaci dello spettatore.

Questo luogo «aspro e forte, d’orror pieno», battuto da «furti, omicidi, odi, vendette et ire», è disegnato da Ariosto a tinte fosche: come una «fossa profonda», chiusa dalla «fiera sponda» del «silvoso Apennin», simile alle Malebolge dantesche; un «rincrescevol» e «cieco labirinto», dove si è ritrovato suo malgrado (Satira IV); una natura ostile e popolata da «ladroni e assassin» che ispirano la cronaca nera e le relazioni consegnate alle sue lettere. Così la descrizione della Garfagnana si appropria di parole e di intonazioni dantesche (ricordiamo la «città partita», cioè divisa in fazioni ostili, di Inf. VI 61) :

«Ogni terra in se stessa alza le corna,

che sono ottantatré, tutte partite

da la sedizïon che ci soggiorna» (Satira IV).

Ma questo fondale prefigura altre atmosfere letterarie. Ogni terra (‘contrada’) è battuta da personaggi che hanno, nelle lettere di Ariosto, nomi da ‘bravi’ o da signorotti manzoniani: Moro, Balduccio, Bernardello, Bertagnetto, Ginese, Magnano, Pachione, Pelegrinetto, il Frate, Ulivo, Bogietto detto Cornacchia, Acconcio e persino un Margutte di Camporgiano. Non sono tutti stinchi di santi; molti si rendono responsabili di scelleratezze sui poveromini di cui Ariosto vorrebbe essere governatore più giusto:

«Perché vostra ex.tia sappia tutto quello che accade in questa provincia, io scrissi a’ dì passati a quella che ‘l Capitano predetto haveva havuto ne le mani un Balduccio il quale, insieme con prete Matheo e dui altri ribaldi, avevano gettato giù d’una balza et amazato un poverhomo [...]. Questo non ho scritto per referire male, ma per advertire vostra ex.tia che quando le fusse raportato che qui non si fa iustitia, ella non creda che sia mia colpa (Castelnuovo, 25 novembre 1522)».

La scrittura di Ariosto si scioglie nella compassione, anche quando, nel suo carteggio, sembra prendere il sopravvento la vena narrativa: troppe le «male bestie», troppi i ribaldi che danno «ferite e bastonate», troppi gli omicidi  e i «rapinamenti». Senza che l’incontro letterario sia mai avvenuto, quasi intravediamo in filigrana l’Anonimo da cui Manzoni ricava la trama dei Promessi Sposi, con tanto di sgherri travestiti che tentano di rapire una giovane, e ne feriscono gravemente la madre:

«Essendo io a questi giorni a Ferrara, accadé che dui figlioli di Ser Evangelista dal Silico intràro qui a Castelnovo una notte travestiti in casa d’una giovane; [...] e gli messero le mani adosso per tirarla per forza di casa: ella gridò, e fu aiutata. La mattina si venne a dolere al capitano. Per questo un figliolo di Ser Evangelista, deto prete Job, il quale è chierico ordinato in sacris, trovò la madre de detta giovane, e gli ruppe la testa e lasciò per morta, et è stata molti dì in pericolo di morire (Castelnuovo, ad Alfonso I duca di Ferrara, 17 aprile 1523)».

Non c’è però provvidenza fra quei monti - e Ariosto lo sa bene -; la violenza c’hanno patite queste donne forse resterà impunita; anche perché il suo difetto è di essere troppo buono, di avere sempre pietà, di non essere uomo da governare altri homini:

«Io ’l confesso ingenuamente, ch’io non son homo da governare altri homini, ché ho troppo pietà, e non ho fronte di negare cosa che mi sia domandata» (Castelnuovo, a Obizzo Remo, 2 ottobre 1522).

Anche se contro certi ‘Innominati’ locali (qui apertamente nominati), che si sentono sicuri nel loro nido (di nuovo una parola manzoniana), il pensoso letterato, ritrovando tutta l’asprezza dei suoi tempi, vorrebbe, ma spesso non può, esercitare la sua amara giustizia di commissario:

«[...] Io ho desiderio di havere questi ribaldi e di farli subito, senza udire altro, impiccare; ma io non son sufficiente, parte perchè non ho se non dieci balestrieri et ancho perché di essi non mi fido». (Castelnuovo, ad Alfonso I duca di Ferrara, 20 luglio 1524).

«[...] avrei avuto il modo di pigliare e di tagliare a pezzi tutti questi ribaldi e la sua compagnia, imperò che Domenico di Amorotto m’ha fatto per sue lettere intendere che ogni volta che costoro si riducano o a Dallo o a Ponteccio dove è il lor nido, io lo avisi e gli dia termine dui o tre dì, che verrà con trecento compagni lor da un canto, sì che, con ogni poco di gente con che io mi movessi dall’altro canto, sarei atto o amazzarli o farli dare in mano del lor nimico che li amazzassi». (lettera a Alfonso I duca di Ferrara, forse 2 maggio 1523).

Fatti e considerazioni che, una volta di più, richiamano le tristi descrizioni del castello dell’Innominato manzoniano:

«Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima». (A. Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XX).

Sicché la Garfagnana di Ariosto si riverbera, nella nostra memoria, in due opposti sfondi letterari, quello remotissimo del pozzo assai largo e profondo dell’Inferno di Dante, e quello, ancora di là da venire, della imperfetta, violenta e spesso ingiusta società manzoniana: nel mezzo sta questo luogo reale, dove lo scrittore si sforza di operare con misericordia e saggezza, ma troppo spesso stenta a percepire, come invece nel poema, il disegno armonioso delle avventure degli uomini.

Paola Vecchi