Il libero ospedale di Maggiano. La psichiatria fenomenologica di Mario Tobino

La formazione letteraria

Sui banchi dell’università Tobino conosce Mario Pasi e Aldo Cucchi, da subito i capisaldi della condivisione di un comune sentimento di insofferenza verso il fascismo, nonché i protagonisti di un’amicizia che lo accompagna idealmente per tutta la vita. Mentre i “tre amici” consolidano l’amicizia sui banchi dell’ateneo bolognese, in un rapporto nutrito soprattutto da una crescente e condivisa "passione politica", altri legami occupano Tobino fuori dal contesto universitario. Fra la ricchezza degli incontri nella città, il protagonista indiscusso è senza dubbio Giuseppe Raimondi, snodo di incontri letterari e artistici e fautore di un’idea di pratica letteraria molto simile alla cifra di quella di Tobino. 

Il figlio del farmacista viene finito di comporre all’Ospedale Psichiatrico di Ancona, ma i primi testimoni della stesura manoscritta risalgono ai primi anni ’30. Insieme al valore di testimone dell’arrivo nella città emiliana del “figlio del farmacista” viareggino, il primo romanzo del ’42 è un esempio della prossimità con la letteratura che Tobino inizia ad avere proprio a partire da Bologna, e di una necessità di cominciare a elaborare l’esperienza ospedaliera in un’unica narrazione in prosa.
In questa narrazione in terza persona Tobino descrive le attese e le aspettative dell’arrivo a Bologna, che rileggiamo nell’edizione nel capitolo “Caterina va in città” (….). 
Il manoscritto della fine di questo capitolo prosegue, rispetto all’edizione, la descrizione dell’atmosfera bolognese registrata da Tobino dopo l’arrivo. L’irruenza della scrittura viene testimoniata dal supporto: dei foglietti di prescrizione medica intestati alla Farmacia Tobino.  (...)
 

In questo blocco di appunti del 1933, probabilmente di poco precedente al trasferimento a Bologna, leggiamo nei primi fogli: «Conosciuto Mino Maccari, piccolo di statura, gli occhi neri, la pelle bruna, sembra un bambino che abbia smarrito la scuola. Mario, dolce, anch’egli bambino artista, forse più riflessivo tra quelli che ho conosciuto, ancora ingenuo lui fortunato». Dopo prove di titoli per racconti, negli ultimi fogli altri pensieri che ricordano l’inizio degli appunti sul Diario, che Tobino inizierà nel 1945: «L’esperienza non si acquista soltanto con l’età ma con l’osservazione. Un pazzo un giovane che dalle piccole cose sa salire alle grandi e gli animi degli uomini compara e freddamente analizza e i dolori che da essi riceve sopporta ricorda la più esperienza di quegli anziani che sono così frequentemente a consigliare un giovane senza prima vedere a che giovane parlano».
Questo testimone è il primo di una cospicua serie di blocchi di appunti degli anni ’30 conservata presso l’Archivio Bonsanti, la maggior parte risalenti agli anni ’30, che testimoniano, oltre un’urgenza di scrittura in prosa che affianca una produzione edita per il momento solo poetica. Insieme a ritratti dei primi incontri (Mino Maccari, Mario Marcucci, Cardarelli), vi si trovano riflessioni più generali, sempre espresse in modo lapidario e perentorio, sulla concezione di poesia, sulla natura del “genio”, sulle strade dell’osservazione. 

 

                                                      Giuseppe Raimondi

 

Durante il suo soggiorno bolognese, Tobino non manca di frequentare la bottega di stufe di Giuseppe Raimondi, artigiano-scrittore che si forma da autodidatta mosso dai propri interessi per l’arte e la letteratura, approcciandosi prima alla prosa del maestro Cardarelli,  poi all’autobiografismo con il Giuseppe in Italia. Fin da giovane ha mantenuto e coltivato uno sguardo rivolto alle esperienze d’oltralpe e avanguardistiche, di cui è testimonianza la sua rivista “La Raccolta” (1918-1919).
Nella figura di Raimondi, Tobino trova una guida e un punto di riferimento nei suoi primi tentativi di approccio al mondo letterario, mettendosi in contatto con molti rappresentanti culturali dell’epoca. 
Oltre alla collaborazione per "II Selvaggio” e alla conoscenza di Maccari, è per mezzo dell’amico bolognese che Tobino inizia a collaborare con Bonsanti e con Angioletti, a cui destinerà alcune le novelle marinaresche che sta scrivendo in questi anni, raccolte successivamente in La gelosia del marinaio (Tumminelli, 1942).
L’artigiano bolognese è un attento lettore delle prime poesie di Tobino e cura nel 1939 la prefazione alla raccolta Amicizia [1], riflettendo sul ruolo poetico del giovane viareggino all’interno del panorama poetico novecentesco.


I due amici condividono una posizione di outsider rispetto alla mondanità letteraria,  restando ancorati alla loro professione di artigiano e medico: la loro voce poetica si fonda sull’esperienza e sull’osservazione del reale, su ciò che hanno vissuto e su ciò che ormai è a loro familiare, rielaborati in una dimensione autobiografica e autoriflessiva, di cui le loro opere sono la testimonianza più sincera. 
In questo loro atteggiamento si scorge la condivisa esperienza letteraria a metà con le rispettive professioni: Raimondi e la sua bottega di stufe; Tobino e il suo manicomio. Entrambi condividono la passione per il mestiere, che li mette a stretto contatto con la realtà, con la società al di fuori del mondo letterario, sperimentandone la concretezza e la quotidianità.
La loro amicizia durerà fino a tarda età non solo nelle dediche dei volumi conservati nelle rispettive biblioteche (La biblioteca di Tobino), ma anche nel ricordo delle loro giornate bolognesi, dei loro incontri e dei discorsi sull’arte e sulla vita. 


 

Gli intellettuali che gravitano intorno a Raimondi, come Cesare Brandi, Giorgio Morandi, Ludovico Raggianti e Roberto Longhi, coinvolgono il giovane Tobino nel confronto e nello scambio culturale e intellettuale, arricchendo la sua esperienza e la sua formazione. Inoltre, Tobino scopre presto di condividere con gli intellettuali dell’ambiente bolognese, legati al “Gruppo Ragghianti”, gli ideali di libertà e solidarietà che si esprimono in una lotta sincera e concreta al regime. 
La guerra segna per entrambi una svolta nelle loro vite e nella loro coscienza: per Raimondi, sfollato a Portomaggiore, è il momento in cui ripensa alla sua vita e al suo ruolo di scrittore e della scrittura come baluardo per la ricostruzione della società e del legame tra gli uomini, che poi ha successivamente descritto nel Giuseppe in Italia
Tobino, invece, partecipa al periodo clandestino con fiducia e speranza in un totale rinnovamento, umano e collettivo: lavorando al manicomio di Lucca, svolge funzioni di trasporto, collegamento, riferimento; cura e nasconde i partigiani, mettendosi a sincera disposizione dei suoi compagni. La libertà respirata insieme ai suoi compagni, ai figli di marinai e dei poveri popolani gli fanno rivivere gli anni della gioventù, della teppa del Piazzone. 
Del periodo clandestino a Tobino rimane il ricordo degli anni più belli della sua vita, in cui ha sperimentato concretamente i valori di fratellanza e libertà coltivati durante il soggiorno bolognese. L’idea di comunità e di vita comunitaria rimane, anche dopo gli anni della guerra, alla base non solo della sua attività letteraria, ma anche della sua professione di medico dei matti: Tobino è legato a storie di vite condivise e all’idea di “comunità di affetti” (Garboli 1991), nel tentativo e nel desiderio di indagare l’animo umano. 
Bologna rimane una tappa fondamentale nella formazione culturale e letteraria, ma soprattutto un’occasione di crescita umana, di scoperta dei valori di amicizia e fratellanza a cui Tobino si aggrapperà e metterà in pratica nella sua professione per il resto della vita: 
 

«E gli altri amici naturalmente interrompono, armoniosamente, e così commentano e incastrano parole assennate e di verità nell’argomentare e nello sfogo di chi parla, e in tal maniera che tale è appunto il senso dell’amicizia degli amici che insieme stanno nella cantina bevendo il vino sì buono a bersi» (Amicizia, p. 49). 

 

Francesca Paracchini