Il libero ospedale di Maggiano. La psichiatria fenomenologica di Mario Tobino
Dopo. "Il manicomio di Pechino"
Nel maggio 1990 esce Il manicomio di Pechino, l’ultimo libro edito in vita da Tobino. Il perché della dislocazione nella lontana città orientale si comprende mentre si scorrono le frementi annotazioni, compilate dal 1955 al 1956 da Tobino, che in questo intenso periodo è il direttore del manicomio di Lucca (l’unica volta in cui ricoprirà tale incarico). Anche se il titolo viene deciso solo a ridosso della pubblicazione, così come i riferimenti al «manicomio di Pechino» (dove «i personaggi sono tutti inventati») sono inseriti solo alla fine della lavorazione, l’evidente accusa contro le «cure cinesi» si intuisce fin dalla prima redazione sui quaderni manoscritti.
Tobino si confronta ora con un approccio alla pratica medica che deve necessariamente contemplare l’architettura burocratica dell’Ospedale, preoccuparsi delle problematiche quotidiane o strutturali che riguardano l’organizzazione degli spazi, delle finanze, e quindi l’assicurazione della cura dei malati. La direzione è un periodo faticoso per lo psichiatra, che registra scontento la mancanza di tempo per la letteratura, mentre scrive sui soliti “quaderni neri”, separati però dai consueti del diario privato (che pur procede nelle annotazioni), un nuovo diario-romanzo che dovrà essere pubblicato.
Nove i capitoli del “diario della direzione”, fra cui figurano due inserti saggistici, La loro casa e Dieci-dodici percento, molto vicini, come è chiaro già dai titoli, ai celebri e militanti articoli di pochi anni prima.
La «cura del sonno» è il luogo del testo in cui Tobino torna maggiormente, quella terapia farmacologica (con l’innovativa clorpromazina) che a cavallo della sua direzione entra nel manicomio. Gli psicofarmaci e la loro ambigua azione sul malato sono quindi nuovamente (dopo Gli ultimi giorni di Magliano) il punto di partenza per denunciare le conseguenze immediate della legge 180, ma anche per inoltrarsi in una nuova descrizione dell’attenzione sorvegliatamente empatica che Tobino ha avuto verso l’Ospedale: dalla cura per l’allestimento del presepe alla compartecipazione profonda con la comunità lucchese, esemplata dagli infermieri provenienti dalla campagna, dalla processione del Corpus Domini. Un altro degli snodi tematici più cari allo scrittore “della comunità” è senza dubbio il giardino: il quaderno a esso dedicato è l’unico ritrovato in fotocopia e corredato da una mappa accuratamente descritta attraverso i nomi scientifici delle piante che Tobino si cura di allestire e personificare (nel momento della chiusura dell’Ospedale, nelle lettere all’amico Franco Bellato, vi tornerà con il pensiero per metaforizzare il loro decadimento).
Fra la gita al manicomio di “Milazzi” (Varese), primo in Italia per utilizzo delle cure biologiche, la trascrizione di intere lettere (realmente inviate o ricevute, come attestato all’Archivio di Stato di Lucca) all’amministrazione provinciale, episodi di vita quotidiana ospedaliera, e le dilanianti domande sulla criminalità dell’azione biologica o farmacologica, questo sguardo retrospettivo sul manicomio non è un inno nostalgico a un passato irriproducibile, bensì un produttivo sguardo al cuore del vero cambiamento e agli sbagli, le riflessioni e i modi con cui è stato abbracciato, mai acriticamente. La sola possibilità per farlo è utilizzare la forma narrativa del diario, ragionato e cassato quando non funzionale o troppo esplicito (e l’espunta “veritiera appendice” ne è un esempio), ma volto a un’affermazione decisa di una precisa responsabilità, politica e medica.
«Sì, Pascal e altre superbe menti avevano dialogato a lungo con la morte, sin quasi ad amarla, libero l’uomo di abbracciarla. A che pro tante sofferenze? Libertà di strapparsi via le catene. A questo tanto volte sono giunte le gagliarde menti, le grandi anime. Arrivati a questo con serenità, lunga meditazione, pensieri che limpidi si concatenano. Ma il ricoverato trentatreenne non era un filosofo. Era capitato tra quelle mura perché colpito da una oscura malattia e dunque lì per essere protetto, una anomalia lo aveva spinto, costretto; senza alcun dibattito si era legato la cinghia al collo» […]
«Il tuo amico Aldo Cucchi fu a Bologna comandante della Settima Gap e assai ne uccise di avversari. Il tuo amico Mario Pasi per più di un mese fu torturato dal tenente Karl, ma non parlò, non tradì i suoi compagni di lotta. E tu non sei buono a nulla? Almeno prova a conoscere il numero dei morti, delle vittime di questa legge progressista, libertaria, scientifica, rivoluzionaria, della massima civiltà- Zitto zitto sono risalito in macchina, sono tornato nel mio studiolo e ho vergato queste solitarie righe».