Il libero ospedale di Maggiano. La psichiatria fenomenologica di Mario Tobino
Ancona e Gorizia
«Ci fu questo periodo del manicomio di Ancona. Dei momenti eravamo in esaltazione, la libertà già stretta nelle nostre mani; altri giorni in mutismo, tra beffardi interrogativi» ("Ospedale d’esempio", Tre amici, 1988)
Nell’ottobre 1938, dopo il congedo dal servizio militare che lo aveva visto impegnato a Merano, Tobino esercita i primi mesi di pratica psichiatrica a Bologna, fino alla fine di dicembre: «Feci le valigie, arrivai a bologna, entrai al Roncati. Turri vi si era già installato. Ridemmo della nostra posizione amministrativa: vitto e alloggio e non un soldo di paga. Avevamo in compenso delle magnifiche stanze e ci serviva un matto, un malato, allucinatissimo ma quanto mai simpatico e amichevole. Proprio la prima mattina, appena mi ero svegliato, mi dette un esempio della sua sintomatologia» (Tre amici, 1988).
Inseguendo un altro concorso suggerito da “Turri” (Aldo Cucchi) dopo pochi mesi è ad Ancona, dove rimane fino all’aprile 1940.
L’intensità di stimoli ricevuti e la fertilità del periodo presso l’Ospedale neuropsichiatrico di Ancona sono testimoniati dalla varietà di documentazione, scritti e pensieri che ad esso risalgono: dalle note del diario alle poesie scritte su quella «scrivania pulita e composta», in cui Tobino finisce inoltre di scrivere il Figlio del farmacista, iniziato e proseguito a più riprese e interruzioni nei primi anni ’30, agli studi che cominciano a trovare la prima sistematizzazione.
«Fu lì, per esempio, in quella biblioteca, che una notte trovai il libretto di Cotard, che per la prima volta descriveva quella malattia che poi prese il suo nome. C’era fortunatamente, ricoverato lì ad Ancona, un caso di Cotard, delirio di negazione e immortalità; proprio un Federale fascista era stato avvinto da questa malattia mentale. […] Ma oltre alla biblioteca il manicomio di Ancona beneficiava della passata direzione del professor Modena. Non solo in questo ospedale lui aveva riversato tutto ciò che aveva appreso da Kraepelin, a Monaco di Baviera, ma si era anche valso dei marchigiani, della loro natura, così bella intelligenza e insieme modestia; la nessuna alterigia li fa più acuti e adatti a comprendere i labirinti della follia, a collaborare efficacemente con lo psichiatra, con il dottore del reparto» (Tre amici, 1988).
Gustavo Modena, qui non nascosto sotto pseudonimi, è il predecessore di Giovanni De Nigris, poi protagonista della storia del manicomio di Volterra.
«I marchigiani sono individui in genere di carattere dolce, parchi nel mangiare, misurati nei divertimenti, lontani da ogni bizzarria, contenti del proprio stato, facili ad essere guidati, non desiderosi di avventure, da secoli dediti, eccetto piccoli gruppi abitanti in certe cittadine, alla semplice vita dei campi, di intelligenza normale; ottimi lavoratori, specie se indirizzati con senno ed energia, e loro massima caratteristica consiste nell’intraprendere un lavoro dedicando a questo più che alla loro intelligenza il loro amore». (Mario Tobino, Nota storico-statistica sul manicomio di Ancona, 1939)
«Aveva quel matto detto l’amore, perfino l’amore anche per la piccola sospettata cimice. Io non so dire bene i particolari che poi fusi in armonia dicono il tutto, mi ricordo solo con maggiore insistenza che il volto del malato, chinandosi verso l’animaletto, per identificarlo, era visto da noi di profilo, e si vedevano rughe sottili, come raggi, che partivano dall’angolo esterno dell’occhio e si perdevano nel viso cotto dal sole; non so perché debbo dire che tali rughe erano, mi parvero, materne, quelle di una vecchia madre senza più figli e che carezza un nipotino che da tanto non vedeva; il modo di rispondere poi del malato era fatto di parole che ridevano nell’aria e insieme fondendosi non solo dicevano l’idea ma nel tempo medesimo dicevano la contentezza di chi le pronunciava, significavano la gioia dell’ammalato nel riprendere, in quelle risposte, antico suo compito della vita, di riprendere la dignità dell’uomo che collabora spontaneamente a questo nostro vivere insieme uno aiutando l’altro, ciascuno portando quel grano piccolo o grosso nel mucchio secondo che gli è possibile» ("Fiducia", Il figlio del farmacista, 1942).
Se la descrizione del malato del capitolo "Fiducia" rappresenta il primo passaggio per sistematizzare una modalità di osservazione che in questo testo di stampo lirico (Il figlio del farmacista doveva inizialmente essere un prosimetro) viene intuito, il capitolo "Del perché del manicomio" ci informa apertamente sui motivi del voler rimanere fra la «carne pazza» dell’Ospedale, qui per la prima volta vista con consapevolezza e lucida partecipazione.
Gli anni di Gorizia sono importanti soprattutto per la sperimentazione delle terapie di shock. Esse sono il punto di partenza per un tipo di riflessione che conoscerà successivamente, nel momento dell’arrivo del trattamento psicofarmacologico, da esporre in diretta correlazione con certi “metodi criminali” (Dopo. Il manicomio di Pechino).
Come ci racconta, in modo romanzato, fra le pagine di Tre amici, al medico in formazione viene offerto un posto a Gorizia, richiamato dallo stesso direttore: «Mi trovai a Gorizia e constatai come era lontana dalle Marche e ancor più dalla Toscana. Quale diversa storia aveva alle spalle! Con molti ricoverati comunicavo attraverso l’interprete, parlavano croato».
Dagli anni Dieci del Novecento l’Ospedale aveva conosciuto una colossale opera di rifacimento, terminata nel 1933. Vent’anni prima dell’arrivo a Gorizia dello psichiatra che proprio a partire da quell’esperienza concretizzerà il ripensamento del sistema assistenziale psichiatrico italiano, Franco Basaglia, Tobino osserva studia e scrive quanto vede e quanto apprende dai metodi qui conosciuti. È in questo periodo che sperimenta le terapie di shock, come l’insulinoterapia (OS, “Cronologia”) e la cardiazolterapia (doc. e doc.), è in questi mesi che esce, frutto dell’intenso periodo di maturazione anconitana, il primo dei celebri lavori scientifici: La sindrome di Cotard o l’impossibilità del concetto. L’articolo presenta il caso, poi recuperato anche con il “federale” di Per le antiche scale di un delirio di negazione.