Il libero ospedale di Maggiano. La psichiatria fenomenologica di Mario Tobino
Il progetto per Vicenza
Appena conclusa l’esperienza di direzione a Maggiano (fra il 1956 e il 1957, V), Tobino è nuovamente medico primario della sezione femminile, e sotto la sua guida il manicomio ha conosciuto cambiamenti necessari.
Il contesto storico-psichiatrico, tuttavia, prepara già più maturi fermenti, e a Fregionaia è Domenico Gherarducci nel 1958 a subentrare alla direzione. In questo contesto, due giovani architetti, Piero Marello e Giorgio Ramacciotti, si presentano all’Ospedale di Maggiano per chiedere allo psichiatra delle Libere donne di partecipare insieme a loro al Concorso per vincere la nuova progettazione dell’Ospedale di Vicenza. Lasciati appena i quaderni di “Come è difficile portare avanti le cose” (poi Il manicomio di Pechino) Tobino allestisce in poco tempo il progetto, che sarà presentato il 4 maggio del 1958 all’Ospedale Neuropsichiatrico San Salvi di Firenze.
Il progetto per la costruzione dell’ospedale di Vicenza viene redatto in pochi mesi dallo psichiatra e dai due giovani architetti. Due foto, poi entrate anche nell’articolo degli atti del congresso di San Salvi, corredano la prima battitura dattiloscritta. La firma di Mario Tobino campeggia unica in fondo al fascicolo e il pezzo è del tutto uguale a quello che entrerà negli atti della conferenza di poco successivi.
«Un moderno ospedale psichiatrico (che più propriamente si dovrebbe chiamare – Istituto Psicoterapico) deve avere la stessa fisionomia di un paese, e sia pure uno speciale paese, una fisionomia viva in tutte le sue parti, logica, sviluppatasi naturalmente, riflessione dell’economia che la governa».
«Nel nostro progetto esiste questo centro e a forma di piazza e, prima di descrivere dettagliatamente il funzionamento del nuovo Ospedale Psichiatrico di Vicenza, prima di dimostrare come in questo progetto l’architettura non è un fenomeno astratto ma è al servizio della psichiatria, ci sia permesso di parlare di questo centro e non, naturalmente, in quanto è stato imposto da noi, ma perché nato spontaneamente, perché è il luogo dove confluiscono le ragioni di uno “Istituto psicoterapico”, il luogo dove ci si rinfranca per ritornare alla vita libera, il luogo dove quei ricoverati usciti di fresco da una malattia che più di tutte le altre confonde, intristisce e frastorna, possono trovare la prima umana immagine di un riadattamento, possono distinguere la via per ritornare uomini liberi tra gli altri […]».
Il progetto di Tobino ruota su alcuni perni progettuali innovativi per l’ambiente psichiatrico con cui fa i conti, di cui il congresso del ’58 è un esempio. L’esperienza della direzione di Maggiano lo ha persuaso dell’importanza strutturale degli spazi di cura e quindi, in un ospedale di «duemila anime» come quello di Vicenza, che può essere un modello per tutti gli altri, l’obiettivo è la creazione di un vero e proprio «paese», con tutti i suoi attributi urbanistici.
L’ampia piazza centrale dovrà essere il punto di convergenza di tutte le strade interne, che provengono dai reparti come dalla direzione, in opposizione alla fisionomia chiusa e respingente dall’esterno dei più comuni ospedali. L’apertura strutturale delle parti che compongono il manicomio, al quale Tobino annette anche un teatro, deve tendere a promuovere un’idea di «Istituto» che renda l’internato capace di comprendere e abituarsi allo svolgimento della vita “di fuori”, rendendolo in grado di affrontare il mondo successivo all’internamento. In modo speculare, anche la comunità esterna all’Ospedale non ne verrà respinta ma avrà maggiori occasioni di esserne parte attiva e quindi di meglio comprenderlo.
L’Istituto avrà «forza terapeutica in quanto in essa davvero sparisce la segregazione riproducendo gli spontanei, naturali movimenti della vita di relazione, essendo essa uguale a un centro di un qualsiasi vivo paese».
I Servizi sono al centro dell’ospedale perché i malati vi possano facilmente lavorare, i reparti gestiti in modo che da ogni punto si riesca a «riposare» lo sguardo grazie al «verde» sottostante e, infine, la questione economica, imprescindibile e determinante per il corretto funzionamento e quindi la cura adeguata degli spazi, che abbiano sempre come obiettivo il risanamento del malato.
Di grande interesse la “Discussione” riportata in calce all’intervento di Tobino, fra cui figurano molti nomi noti della psichiatria del tempo. Fra i numerosi che contestano in particolar modo la nuova nomenclatura dell’ospedale che rischia, secondo i più, di relegare in posizione di minore importanza la ricerca biologica, base di ogni scienza psichiatrica. L’unico a distinguersi è Cardona ( cfr. dal Diario 38bis, sez. 1) che sottolinea la possibilità di mantenere le diverse direzioni della ricerca psichiatrica parallele fra loro; è riprendendo il suo intervento che Tobino chiude la discussione:
«Cardona – citando Cicero – avverte che non esistono burocratiche misure e in un ospedale psichiatrico ci può essere qualsiasi cosa: il centro neurologico, quello di riadattamento sociale, la psicoterapia di gruppo, quella personale, e i paragoni tra l’Amenza e la Sindrome generale di adattamento, e anche la stizza contro quell’Aubin che si attribuisce ogni paternità. Ciò che davvero è vitale è soltanto la ricerca del vero, il portare il nostro obolo al progresso, e, nello specifico caso, far sì che i malati di mente stiano un po’ meglio, un poco meno infelici, che abbiano un loro paese, simile a quello che hanno lasciato e a cui desiderano ritornare».
L’articolo di Mario Tobino viene lodato da Bruno Zevi all'indomani della vittoria (articolo). Sarà ripubblicato in appendice al volume di Giorgio Del Boca, Manicomi come lager, 1966.