Ezio Raimondi: la biblioteca infinita
Un «susurro» eretico: Manzoni senza idillio
L’avvicinamento di Raimondi verso la figura di Alessandro Manzoni e la sua opera va di pari passo con un sempre maggiore interessamento, dopo i saggi degli anni ’60 Trattatisti e narratori del Seicento (Ricciardi, 1960), Letteratura barocca (Olschki, 1961), e Anatomie secentesche (Nistri-Lischi 1966), verso la teoria del romanzo.
L’occhio dello studioso giunge all’autore milanese dopo aver intimamente introiettato la lezione di Longhi sulla pittura caravaggesca che per primo utilizzò i documenti storici del tempo per inquadrare complessivamente il pittore preso in esame; e parimenti quella di Gadda che coglie il significato intimo del romanzo attraverso lo svelamento della parola manzoniana all’ombra del dialetto, assieme alla vena umoristica che ammette sempre il gioco di luce e ombra, vero o figurato, e che Raimondi aveva visto già negli autori del Seicento.
La prima sortita manzoniana a stampa risale al 1964 quando Raimondi pubblica su «Lettere italiane» il saggio Jacob Burckhardt e i «Promessi sposi»; però nello stesso anno accademico 1964-65, alla allora Facoltà di Magistero, tiene un corso monografico su Manzoni e il problema del romanzo.
Questi due dati sono sintomatici di quanto convoglierà poi nella saggistica futura, perché ad esempio se si guardano le pagine del ciclostilato del corso appena menzionato si capisce subito che Raimondi sta affrontando in quel momento la materia manzoniana da una prospettiva sia filologica, consultando il Fermo e Lucia, sia critica, leggendo agli studenti l’epistolario dello scrittore. Una lettera del 1964 al professor Delio Cantimori testimonia che a quell’altezza Raimondi aveva già fra le mani gli studi manzoniani seppur non in maniera organica, ma accompagnata da una saggistica d’eccezione per quei tempi come Ph. Wheelwright di The Burning Fountain, e N. Frye di Anatomy of Criticism.
Una tappa fondamentale, spesso dimenticata, e che qui si vuole riproporre sottolineandone tutta la sua rilevanza, è l’occasione del simposio americano presso Baltimora che significò l’incontro con Charles Singleton, professore alla Johns Hopkins University nel 1967, durante il quale Ezio Raimondi, esponendo le sue tesi manzoniane, meditate dal 1964, tenne in inglese una relazione dal titolo Genesis and Structure of a «Catholic» Novel.
Gli argomenti della conferenza, cioè la genesi storica, il problema della struttura interna del romanzo, e la questione del problematico sentimento cattolico che lo anima entreranno poi nel Romanzo senza idillio (Einaudi, 1974). Questa lezione americana è ancora più importante se si pensa che in quella sede per la prima volta Raimondi chiarisce la peculiarità del processo della Colonna Infame come vero soggetto del romanzo manzoniano, citando la famosa lettera di Ermes Visconti a Victor Cousin del 30 aprile 1821.
Dopo il saggio del 1974 Raimondi tornerà su Manzoni prima con il commento ai Promessi sposi allestito assieme a Luciano Bottoni per i tipi di Principato nel 1987, e di recente ripubblicato per Carocci; e poi con un secondo e fondamentale saggio del 1990 intitolato La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana. In questa pubblicazione Raimondi armonizza le sue idee manzoniane maturate nel tempo e mette in rapporto lo stile manzoniano con il precetto barocco della dissimulazione, evidenziandone la plurivocalità e la polifonia sulla base della teoria di Bachtin sul romanzo. Anche le questioni della lingua e del dialetto milanese vengono messe qui in risalto con molta forza, proprio perché l’intreccio di voci e di registri del romanzo determina quelle maschere retoriche che poi sono tutti i personaggi della storia dei due promessi.