Ezio Raimondi: la biblioteca infinita

I Promessi sposi: le parole e le immagini

Nella presente sezione si è deciso di mettere in rapporto alcuni passaggi fondamentali dei saggi di Raimondi dedicati ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni con una selezione delle illustrazioni presenti nella Quarantana. 

Scopo di questa sottosezione manzoniana è costruire un rapporto di corrispondenza fra la saggistica critica raimondiana e le immagini del romanzo, in modo da creare un doppio binario di fruizione del contenuto di cui da una parte si può apprezzare la ricercatezza e l'acume interpretativo di Raimondi "manzonista"; e dall'altra guardare all'apparato illustrativo dei Promessi sposi nella sua piena funzione di "autocommento" interno al romanzo.

La sua ironia sta proprio nel trascrivere in un nuovo registro, quello pluriprospettico del romanzo, l’ironia antifrastica ed eufemistica di un linguaggio oggettivato dalla coscienza univoca di un ruolo sociale, trasformando la mimesi in una controvoce critica, in una citazione che giudica se stessa attraverso il soggetto citato. Si può allora dire con Bachtin che il narratore esplicito di «insegnavan la modestia» presentandosi alla ribalta con il suo «prendiam a raccontare», si serve di parole già abitate da intenzioni altrui e le costringe a servire alle proprie, in rapporto al sistema di forze della nuova struttura romanzesca. Cosi anche la sua parola diventa quella che Bachtin chiama un’enunciazione bivoca, un processo dialogico interno a un concertato pluiridiscorsivo e alle sue figure ibride o sovrapposte. (E. Raimondi, Ironia polifonica in ID. La dissimulazione romanzesca. Antropologia manzoniana, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 48-49)

Sin dall’inizio, con l’antefatto di fra Galdino, la problematicità del concreto si mescola in padre Cristoforo al pathos oratorio della fede e arma anche la sua decisione, valutati i pro e contro dopo la «dolorosa relazione» di Agnese, di «salire» al palazzotto di don Rodrigo per «affrontar/o» e «tentar di smoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se fosse possibile». Vien da pensare che l’utopia sia per lui una forma disperata di realismo. (E. Raimondi, L'antitesi romanzesca in ID., Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 1974, p. 268).
 

[…] vi è qualcuno che si sostituisce a Renzo e arriva sino a don Rodrigo: fra Cristoforo, con la funzione, esattamente opposta a quella di don Abbondio, di trasferire verso chi è in alto il diritto di chi è in basso. Alla contrapposizione verticale che struttura lo spazio del racconto e ne rappresenta la gerarchia di valori, dividendo gli uomini in potenti e inermi, ricchi e poveri, corrisponde nel movimento dell’intreccio l’antitesi polisemica di «scendere» e «salire» associata a quella di «violenza» e «giustizia», di «sicurezza» e «paura» (E. Raimondi, L'antitesi romanzesca in ID., Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 1974, p. 266).

[…] le due vicende di Renzo e di Lucia, dal momento in cui si disgiungono procedono a linee alterne e determinano il doppio asse lungo il quale il racconto si dilata per divenire, dirà poi il Burckhardt, un capitolo di storia universale. La loro funzione di raccordo, però, si attua in due direzioni differenti, poiché sull’asse semico di […] Renzo, fatta eccezione per il «vecchio» Ferrer, si dispongono gli uomini della strada e della piazza: osti, avvocati, vagabondi, mercanti, poliziotti, compagnoni, artigiani, monatti, contadini in miseria. Come si vede, tanto l’uno quanto l’altro portano a un’immagine stratificata ed esemplare della società lombarda. Ma solo Renzo si trova a compiere un’autentica esperienza pubblica, viene a contatto coi meccanismi di un sistema sociale, ne sperimenta gli assurdi al livello più basso e si sforza, come può, di capirne qualcosa. Egli è l’antieroe della tradizione picaresca, un «poveruomo» gettato in un mondo imprevisto di insidie e costretto, nel suo viaggio fra il contado e Milano, a una sorta di paradossale Bildungsroman dove, sovente a sua insaputa, sembra quasi rivelarsi il mistero dell’esistenza (E. Raimondi, La ricerca incompiuta in ID., Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 1974, p. 175)
 

Perché anche Renzo prenda a riflettere a sua volta su quanto gli è successo, occorre aspettare che egli entri a Milano e che i nuovi eventi di cui è spettatore o compartecipe lo portino ripetutamente a un confronto, a un dialogo con i propri ricordi, che poi è forse anche, sul piano dell’arte, una delle grandi scoperte manzoniane. Comincia ora la sua avventura pubblica, il suo viaggio di contadino déraciné tra i mostri di una città in disordine, nel labirinto di una folla che lo prende come in un «vortice». Insieme con la curiosità che gli viene dalla certezza di trovarsi in un «giorno di conquista», ciò che lo spinge avanti, senza sapere bene di che cosa vada in cerca, è uno sdegno segreto, quasi una protesta, si direbbe, contro la morale di don Abbondio: e a poco a poco si trasforma in speranza di giustizia per sé, per gli altri (E. Raimondi, La ricerca incompiuta in ID., Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 1974, p. 180)

Legate fra loro da un destino comune e da un interno contrappunto di ricordi, di risonanze affettive, le due vicende di Renzo e di Lucia, dal momento in cui si disgiungono procedono a linee alterne e determinano il doppio asse lungo il quale il racconto si dilata per divenire, dirà poi il Burckhardt, un capitolo di storia universale. La loro funzione di raccordo, però, si attua in due direzioni differenti, poiché sull’asse semico di Lucia si incontrano Gertrude, l’innominato, il cardinale Federigo, e magari donna Prassede o don Ferrante. (E. Raimondi, La ricerca incompiuta in ID., Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 1974, p.175).

Il colloquio dell’Innominato con Lucia serve ad accennare e a motivare la graduale metamorfosi del personaggio. Lucia ha fatto il suo voto alla Madonna e dorme ora tranquilla; ma il castellano è senza sonno, pieno di pensieri terribili; alla mattina sente campane da tutte le parti, uno scampanio a festa, lontano; fa chiedere: il Cardinale Federigo è in visita a un villaggio dei dintorni. L’Innominato scende e va a trovarlo. Questa scena della conversione appartiene alla più potente poesia del nostro secolo; Lucia, liberata, in una casa di contadini del villaggio; la visita di Federigo; poi l’Innominato che parla ai suoi bravi, e la deliziosa «predica» di Federigo a Don Abbondio. (E. Raimondi, Un lettore a Basilea in ID., Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 1974, p. 317).

Il sogno di Don Rodrigo – si ricorderà – compare all’interno della peste. È difficile però scioglierlo dalla notte dell’Innominato che precede, e forse anche da certi momenti della Monaca di Monza: il vuoto uggioso dell’animo della Monaca, simile per certo aspetto a quello dell’Innominato, o la sintomatologia del peso delle coperte dell’Innominato rappresentano legami e richiami che si estendono anche a Don Rodrigo. Se esiste una fenomenologia che corre di là dalla vita dei personaggi, in ogni caso il personaggio a cui viene attribuita la maggior dignità onirica è proprio Don Rodrigo. Ne emerge una sproporzione, un esito paradossale, perché quel sogno dà al personaggio una forza superiore alla sua dimensione psicologica, che tuttavia non va dimenticata (E. Raimondi, Il «susurro fantastico». Dalla scena al romanzo in ID. Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime, Bologna, Il Mulino, 1985)

Ma il primo piano della vigna, con la giunta secondaria della casa piena di «topacci» e di «ragnatele», ha un effetto di antitesi violenta, riempie di colore dovizioso e squillante un crepuscolo già grigio, capovolge il rapporto tra l’uomo e la natura, la quale può vivere in se stessa non come cornice di una scena umana ma come forza e groviglio di forme in conflitto. A chi mediti, d’altronde, sulla costruzione interna di tutto lo «schizzo», per ripetere il termine ironico introdotto dal narratore alla fine del suo divertimento, non dovrebbe neppure sfuggire che la vigna o giardino di Renzo, nella sua sostanza linguistica, è anch’essa una antitesi, in quanto la si può ridurre, retrocedendo alla sua struttura profonda, a una specie di ossimoro come «lo splendore della miseria», sul tipo già noto di «cenci sfarzosi», amplificato ai limiti dell’evidenza o della mistificazione. (E. Raimondi, L'antitesi romanzesca in ID., Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 1974, p. 300-301)

In altre parole, lo stacco che si avverte nella narrazione dopo la pioggia del lazzeretto e il «risolvimento della natura» intorno a Renzo, per l’ultima volta in viaggio, pare voluto in maniera da giustapporre un ciclo di eventi eccezionali a un mondo di nuovo comune, che di essi non conserva se non qualche ricordo, un riflesso più o meno spento. La grande stagione delle scelte drammatiche è passata; riprende la realtà della prosa, degli incontri e dei dialoghi quotidiani, nel tepore riconquistato della casa, della famiglia. Il romanzo genera, si direbbe, il proprio antiromanzo. E tuttavia i problemi che avevano mosso la macchina del racconto si prolungano inquietanti dentro lo specchio delle coscienze, solo che si sappia cogliere la presenza del passato nella trama interna degli ultimi colloqui. Non è da escludere, fra l’altro, che l’ironia della conclusione non consista anche in questa sfida al lettore. (E. Raimondi, La ricerca incompiuta in ID., Il romanzo senza idillio. Saggio sui Promessi sposi, Torino, Einaudi, 1974, p. 186)