La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano
La poesia
Giambattista Vico è stato tra i primi a considerare la poesia come una particolare forma di conoscenza: una vera e propria «logica» primitiva, fondata sulla fantasia e non ancora posta sotto il giogo del principio di non contraddizione, ancora incapace di astrazioni ma proprio per ciò particolarmente perspicua (Della logica poetica, in SN44). Proprio a partire dalle suggestioni vichiane, Benedetto Croce avrebbe formulato una delle teorie estetiche più influenti della prima metà del Novecento, secondo la quale l’arte si darebbe nell’unione immediata di «intuizione» ed «espressione» (Estetica, 1902). Vico veniva così reso da Croce il primo «scopritore della scienza estetica», e il padrino di questa disciplina.
Il terreno era tuttavia già stato preparato da Francesco de Sanctis, che non solo aveva conferito al pensiero di Vico un ruolo di primo piano per la comprensione dello sviluppo storico dei generi letterari – ricostruendo, in particolare, l’articolazione del transito dalla poesia alla prosa, dalla lirica al romanzo –, ma aveva inoltre composto, proprio a partire da un repertorio letterario in lingua italiana divenuto canonico, la «drammatica vicenda di una nazione» che, tra l’età dei comuni e il Risorgimento, «si perde e si riscatta» (Storia della letteratura italiana, 1870). Se dunque la lezione di Croce assegna alla scienza estetica il compito di ricercare in ogni autentica manifestazione artistica le barbare scintille della «poesia» (procedendo, di fatto, in maniera analoga a quella di Vico), il magistero critico di De Sanctis invita viceversa a «rituffarle» nelle stesse forme espressive dalle quali Vico le aveva estratte per proporre la sua scienza della storia.
In ragione di questi precedenti, gli anni che intercorrono tra le «leggi fascistissime» e la proclamazione della Repubblica sono caratterizzati – anche – da accese discussioni attorno allo statuto dell’arte, con particolare attenzione ai rapporti tra la versificazione e la narrazione, la lirica moderna e il romanzo. I poeti più rappresentativi del periodo – Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti e Umberto Saba – riflettono tutti, a modo loro, sulle sempre più residue possibilità di «dare senso, e passione» a un mondo al tempo stesso sempre più enigmatico e oramai quasi più in grado di suscitare alcuna fantasia. Il paradosso della poesia moderna tra «scavo infinito» e «incanto» trova nella loro esperienza di scrittura un punto di emersione. Montale drammatizza la reificazione del mondo (la «passione divenuta cosa»); Ungaretti esprime nel gesto poetico l’eco sbiadita delle origini e, insieme, la nostalgia per la «giovanezza d’una civiltà»; Saba tenta, a un passo dalla prosa, di recuperare un’«innocenza fanciullesca» che si faccia però carico del «peso degli anni della Bibbia», unendo ingenuità e maturità in una quadro di senso cosciente, e per il quale Giansiro Ferrata, riepilogando nel 1958 l’esperienza di «Solaria» e di «Letteratura», avrebbe impiegato un aggettivo sintomatico: «spiegato». Si tratta di una spia che rimanda proprio a Vico, che aveva definito «età della ragione spiegata» la fase storica di massima estensione della razionalità. Ma appena più in là si ritorna di nuovo a De Sanctis e Croce. Il primo aveva parlato in questi termini dell’attività propriamente critica (ricostruire con mente «spiegata e schiarita» ciò che la fantasia aveva prodotto spontaneamente); il secondo, discutendo del «ripercorso del corso», fa notare che la «nuova epoca del senso», così come quella della «fantasia» e della «mente spiegata», è sempre «arricchita di tutto l’intelletto, di tutto lo svolgimento precedente».
