La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

La storia

Il corso storico, che riguarda tutti i popoli nei loro «sorgimenti, progressi, stati, decadenze, e fini», si articola per Vico in tre fasi successive: l’età degli dei, caratterizzata dal potere dei «poeti teologi» in grado di leggere nei fenomeni naturali la volontà divina; l’età degli eroi, celebrata nei poemi omerici e segnata dall’emergere dei governi aristocratici; e l’età degli uomini, «nella quale tutti si riconobbero esser’uguali in natura umana» e perciò regolata dal diritto. Una volta esauritosi tale processo, Vico introduce la nozione di «ricorso», ossia il ripresentarsi di alcune forme arcaiche di vita civile, sull’esempio di quanto avvenuto in seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Non si tratta dunque di una ripetizione identica, ma della ripresa analogica di strutture profonde, guidata dal disegno provvidenziale e inserita all’interno di una «Storia Ideal’Eterna».

Una reinterpretazione radicale del concetto di ricorso fornisce a James Joyce la struttura portante, il trellis, del suo Finnegans Wake. Sulla scorta della Scienza nuova, Joyce elabora una concezione della storia fondata su ciclicità, linguaggio e mito, costruendo un congegno narrativo in cui l’inizio è la prosecuzione della fine. Sin dalle prime righe – con neologismi come riverrun e commodius vicus of recirculation – è evidente l’omaggio a Vico. Anche le celebri thunderwords, parole-comete onomatopeiche e fragorose, evocano l’evento traumatico – Giove che «fulmina, ed atterra i Giganti» – che nella Scienza nuova segna il passaggio dal caos della selva all’ordine civile e indicano un possibile nuovo inizio del racconto. Per Joyce, come per Vico, la storia non è mai lineare: conosce fratture, ritorni, metamorfosi.

Traendo ispirazione dallo stesso nucleo tematico, uno dei motivi più ripresi dai poeti e dagli scrittori italiani della prima metà del Novecento riguarda l’avvento di una nuova barbarie, collegata a una crisi del linguaggio poetico. In effetti, Vico aveva distinto due forme di barbarie: quella originaria, del senso, creativa e mitopoietica, e quella della riflessione, seconda e sterile, dovuta al logorarsi della fantasia e dell’ingegno. Così Giacomo Noventa denuncia la perdita del concetto e del sentimento della poesia negli anni Trenta, individuandovi i sintomi di un «ultimo civil malore». Eugenio Montale discute invece l’oscurità della poesia moderna, giudicata «lontana dal concetto di fantasia quale fu elaborato dal Vico» ma ancora animata dalla tensione verso il proprio oggetto: «la passione divenuta cosa». Anche Giuseppe Ungaretti avverte questo scarto: nell’imitazione dei moti interiori la poesia ritrova, solo in forma di eco sbiadita, la grazia, la felicità e l’energia delle origini, ossia la «giovanezza d’una civiltà».