La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

Eugenio Montale

L’attenzione di Eugenio Montale per il pensiero di Vico è precoce e duratura, e si sviluppa sin dalle sue prime attestazioni in funzione antifascista. Già in una recensione a Storia del pensiero estetico e del gusto letterario in Italia di Santino Caramella – apparsa nello stesso 1925 delle “leggi fascistissime” e della pubblicazione degli Ossi di seppia –, il giovane poeta-critico elogia infatti l’autore per aver trattato il problema dell’estetica vichiana senza presentare «questo complesso svolgimento storico in una caricata funzione di avviamento al lucidus ordo del pensiero nuovissimo». Il latinismo, che si rifà all’Ars poetica di Orazio, indica l’attenzione per l’«ordine limpido» che dovrebbe trasparire da un’attenta costruzione geometrica dei componimenti. Tuttavia, la locuzione è già da molto tempo utilizzata in italiano con funzioni di generico richiamo all’ordine, ed è anche in questo senso che Montale sembra impiegarla. Il «pensiero nuovissimo», difatti, è quello del regime, che in quegli anni ambiva a essere riconosciuto come adempimento storico dell’intera vicenda nazionale, e non esitava a piegare, a questo fine, anche l’interpretazione di Vico. 

In un altro momento altamente simbolico – giugno 1940: entrata in guerra dell’Italia –, Montale torna su Vico in un’intervista attorno alla propria poesia. In questa occasione, il poeta – che ha appena dato alle stampe Le occasioni – contesta gli assunti che vorrebbero caratterizzarla come «oscura», «antitradizionale» e «lontana dal concetto di “fantasia”». Montale sembra riferirsi al concetto di fantasia proprio nella sua accezione vichiana: nella Scienza nuova, infatti, questo termine è strettamente collegato alle origini della poesia e, anzi, della specie umana, con un’enfasi particolare sulle sue qualità sensibili. Se per le «ingentilite nature» dei moderni queste forme di espressione sono pressoché incomprensibili, è perché non sono più in grado di coglierne l’aspetto essenziale: e cioè che i primi poeti cantarono le cose per dare loro consistenza fisica in un mondo che era loro, per la maggior parte, ignoto. 

Illustrando la tecnica del correlativo oggettivo come il procedimento attraverso il quale si descrive la «passione divenuta cosa», Montale capovolge di fatto la XXXVII degnità della Scienza nuova. Rispetto ai primi poeti, che tramite il «sublime lavoro della poesia» erano stati in grado di dare alle cose «senso, e passione», quelli moderni abitano un mondo dove la poesia sopravvive a sé stessa, in quanto ha esaurito quella funzione storica; e, se esprime ancora qualcosa, è proprio l’incredulità di continuare, nonostante tutto, a esistere. Se dunque la poesia moderna si distanzia dal concetto di fantasia «quale fu elaborato dal Vico», scrive Montale, ciò non avviene senza «conseguenza e rapporto». 


Bibliografia:

E. Montale, La «Storia del pensiero estetico in Italia» di S. Caramella (1925), in Il secondo mestiere, 2 voll., G. Zampa (a cura di), Mondadori, Milano, 1996, I, pp. 54-58.
E. Montale, Parliamo dell’Ermetismo (1940), in Interviste a Eugenio Montale (1931-1981), I, 2 voll., F. Castellano (a cura di), Società Editrice Fiorentina, Firenze, pp. 6-7.
G. Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale (1974), Einaudi, Torino, 2002.
A. Battistini, Vico e la poesia sublime nell’«età della ragione spiegata», «estetica. studi e ricerche», II, luglio-dicembre 2018, pp. 217-30.
C. Fusco, Vico and contemporaneity: visions of literature in Vico, Quasimodo, and Montale, «Palimpsest. International Journal for Linguistic, Literary and Cultural Research», V, 9, 2020, pp. 123-34.