La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

Gianfranco Contini

Gianfranco Contini è tra le più importanti figure del Novecento italiano, capace di coniugare l’acribia filologica alla critica militante, l’attenzione alla letteratura italiana dalle origini fino all’estremo contemporaneo con un’apertura europea (e in particolare francese) di grande rilievo. Antifascista (sarà protagonista dell’esperienza della Repubblica Partigiana dell’Ossola), membro del circolo letterario riunito intorno al Caffè delle Giubbe Rosse di Firenze, Contini fu collaboratore della prima ora della rivista «Letteratura»: suo è il secondo intervento nel primo numero, nel 1937. È del 1941, invece, una curiosa e molto meticolosa nota critica alle poesie di una bambina-poetessa, Oretta Sabatini, il cui quaderno – girato tra le mani dei grandi di «Letteratura» – era stato portato alle Giubbe Rosse da un suo quasi omonimo, l’allora neofita Gianfranco Corsini. Introducendo questo quaderno, nel quale rintracciava «elementi d’intelligenza pura, diciamo filologica», Contini abbozzava, a metà tra il serio e il faceto, una sorta di difesa preventiva contro chi avesse chiosato, di fronte a tale sortita critica: «Son tutti professori, con manie vichiano-herderiano-romantiche di Poesia allo stato nascente».

Di questa devozione vichiana testimonia anche la sua attività di promotore della poesia di Eugenio Montale, specialmente nel periodo tra Ossi di seppia (1925, 1928) e Le occasioni (1939). In un saggio apparso proprio su «Letteratura» nel 1938 e dedicato al transito tra questi due libri, il critico parla della poesia di Montale come il «sospetto d’un altro mondo, autentico e interno, o magari “anteriore” e “passato”», nella quale la «vera salute» sta «nell’ordine del concreto, e però della lirica» – riprendendo cioè l’identità crociana tra intuizione ed espressione, maturata per tramite del pensiero di Vico.

Sembra tuttavia che Contini si sia adoperato sin da giovane a smarcarsi dalla lezione crociana e, con essa, da quella vichiana. Così, almeno, sostiene Lanfranco Caretti in una recensione del 1946 al suo Saggio d'un commento alle correzioni del Petrarca volgare (1943), constatando come Contini attribuisse allora pressoché esclusivamente alla scuola francese dei meriti che invece andavano ricercati anche in «un’esperienza italiana che parte da Vico» e, passando per Foscolo, Leopardi e Manzoni, giunge fino alla filologia carducciana e all’esperienza della «Ronda». «Benissimo, dunque, Mallarmé e Valéry», scrive Caretti, «ma anche – accanto e prima di loro – Vico, Foscolo, Leopardi, De Sanctis, Croce, Serra, Barbi, velocemente». Si trattava, per Caretti, di sviluppare compiutamente quella «condizione scopertamente umana che oggi non tanto ci angustia e mortifica come nel 1943» ma che, alla luce della Liberazione, «ci esalta, legandosi ad una responsabilità che non è, né potrà forse mai più essere, soltanto responsabilità di pura intelligenza».

Al pensiero di Croce e di Vico, Contini sarebbe tornato in un saggio del 1951, pensato come capitolo di una «eventuale storia della cultura italiana contemporanea» e apparso solo quindici anni dopo sulle pagine dell’«Approdo Letterario». L’influenza culturale di Benedetto Croce è un tentativo dotto e appassionato di «riuscire postcrociani senza esssere anticrociani», emancipandosi tanto dai «coetanei abbandonati a un anticrocianesimo rigorosamente postumo» quanto dagli «juniores fruenti di alcuni risultati postcrociani quando ormai erano trapassati di moda, senza loro sudore». Contini prende le mosse dalla «parzialità» delle tesi espresse nella prima edizione dell’Estetica (1902) – vale a dire l’autonomia dell’arte considerata come momento aurorale della vita dello spirito, «dove agisce il grande motivo romantico, appunto da Vico a Hegel» –  mostrando come dirimenti a questo riguardo gli «spunti intrinseci» al pensatore napoletano ma osservando altresì come il posto «preminente» della Scienza nuova nella teoria crociana maturi, inizialmente, in chiave antihegeliana. La «sintesi di Vico e di Hegel», di «storia ideale eterna» e di «dialettica», di «circolarità» e «linearità», è per Contini un raggiungimento più tardo, databile tra il 1907 e il 1913; all’alba del 1902, invece, Croce sembrerebbe invece giungere a Vico attraverso la mediazione di Herbart, riferimento antihegeliano del suo maestro, Antonio Labriola. Da qui, Croce avrebbe carpito da Vico – definito da Contini un «pensatore fuori dai quadri sindacali» – un’idea di progresso al tempo stesso non lineare e infinita.


Bibliografia:

G. Contini, Eugenio Montale, «Letteratura», II, 4, 1938, pp. 103-117.
G. Contini, Oretta, «Letteratura», VI, 1941, pp. 47-51.
G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce (1951), «L’Approdo Letterario», IX, 36, 1966, pp. 211-240.
G. Corsini, Nota, in G. Contini, Oretta, «Belfagor», LXIII, 6, 2008, pp. 712-718.
L. Caretti, Recensione a G. Contini, Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare (1943), «Letteratura», VIII, 1, gennaio-febbraio 1946, pp. 111-4.
L. Cardilli, Da Contini a Montale e “ritorno”: complicità critiche e problemi metodologici nel saggio sulle «Occasioni», in A. Morace, A. Giannanti (a cura di), La letteratura della letteratura. Atti del XV Convegno Internazionale della MOD, 12-15 giugno 2013, ETS, Pisa, pp. 293-303.