La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano
Giansiro Ferrata
Nato da un’importante famiglia della borghesia milanese, Giansiro Ferrata (1907-1986) aveva risposto sin da giovanissimo alla sua vocazione letteraria, civile e politica. Trasferitosi nella seconda metà degli anni Venti a Firenze, fu membro della redazione di «Solaria» (assumendone anche la direzione tra il 1929 e il 1930) e quindi di «Letteratura». Nel secondo dopoguerra, inoltre, prenderà parte all’avventura del «Politecnico» (1945-1947) e, in seguito, a quella del «Menabò» (1959-1967). Una continuità significativa, anche considerate le sue attività di lettore interno per la casa editrice Mondadori e di responsabile della sezione culturale di «Rinascita» (1962-1968), che fa di Ferrata il principale trait d’union della cultura letteraria tra primo e secondo Novecento insieme a Elio Vittorini.
Un dato in ombra nell’attività di questo già piuttosto trascurato autore è la solida conoscenza (e il frequente ri-uso) dell’opera vichiana, maturato in un primo tempo attraverso lo studio dell’opera di Croce. Tuttavia, dopo questo solido apprendistato – ben visibile nei saggi, nei racconti e nelle recensioni composte in quegli anni per «Solaria» –, Ferrata sarebbe andato ricercando altrove le ragioni della sua predilezione per il pensiero di Vico: e le avrebbe rintracciate nell’alveo di quel Risorgimento italiano che, secondo Croce, aveva commesso l’errore di eleggere il filosofo nel novero dei patrioti, dei liberali, dei ribelli, «consapevole della grave scossa che il suo pensiero dava alle tradizionali credenze» e dunque deciso a «cingere di tenebre la Scienza nuova, in modo che solo i fini intenditori potessero scorgere dove andasse a parare».
In particolare, Ferrata si rivolge alla figura del concittadino Carlo Cattaneo (1801-1869), protagonista delle Cinque giornate del 1848, dedicandogli una serie di interventi e proponendosi di ripubblicarne l’opera omnia per Bompiani – della quale uscirà solamente, nel 1942, una raccolta di interventi di argomento geopolitico intitolata India, Messico, Cina. All’interno della prefazione al volume, apparsa nello stesso anno su «Primato» – rivista diretta da Giuseppe Bottai –, il critico lega queste ricognizioni «dei paesi e dei costumi» al positivismo «illuminato» e allo storicismo di Cattaneo, che «dal Vico arriverebbe in breve ad intuire le ragioni hegeliane (se ogni accento metafisico non gli riuscisse troppo spiacevole)». Proprio come Vico aveva cercato «nella preistoria e nella storia un disegno “necessario” del mondo umano», Cattaneo aveva trovato nella geografia, secondo Ferrata, una miniera di «splendidi episodi per un catalogo immaginoso» di propositi e speranze politiche, comunicate in un linguaggio «che parrebbe uscire da un “divino” oltre la storia», ma che celebra «sempre l’umano, solo l’umano» (Immagine di Cattaneo). L’intervento giungerà sino a Mussolini, che avrà in merito osservazioni deprecatorie.
Si avverte, in questo scritto, una certa insofferenza nei confronti delle «scuole idealistiche» (dietro le quali occhieggia la figura di Croce), ree di aver contribuito all’oblio della figura di Cattaneo; e, viceversa, l’ammirazione per Emilio Cecchi, al quale Ferrata dedicherà per intero l’antologia della «Voce» da lui curata. Sulle pagine della «Ronda», Cecchi era infatti stato tra i pochi a rivalutare la prosa di riflessione di Cattaneo, definendola la migliore di tutto l’Ottocento insieme a quella di Leopardi: «Dopo Vico nessuno come lui, nel numero delle sue frasi, fece sentire il passo del tempo e lo svolgersi dei cicli e delle vicende civili». Proprio in una retrospettiva sulla «Ronda» dedicata a Cecchi, Ferrata inaugurerà la sua collaborazione alla rivista «Letteratura», discutendo la presenza del filosofo napoletano nella sua opera. Allo stesso modo e per la stessa rubrica, Ferrata passerà al setaccio la lettura crociana di Vico, mostrandone in particolar modo le incongruenze: «La fantasia di Vico, non è affatto quella delle “Tesi”; il linguaggio di Vico non è quello delle “Tesi” [...]». Ferrata rimprovera a Croce di aver insistito sulla dimensione originaria e veritativa della poesia, screditando la «meraviglia» che anima le età civili. «Pensiamo che un paradossale Vico fine Ottocento», conclude, «sarebbe riuscito, al contrario di Croce, buon critico di Baudelaire».
Bibliografia:
G. Ferrata, Da «La Voce» a «La Ronda». Emilio Cecchi, «Letteratura», I, 1, 1937, pp. 93-111.
G. Ferrata, Da «La Voce» a «La Ronda». Benedetto Croce (II), «Letteratura», II, 5, 1938, pp. 119-137.
G. Ferrata, Immagine di Cattaneo (1942), ora in Prospettiva dell’Otto-Novecento, Editori Riuniti, Roma, 1978, pp. 61-67.
O. Cecchi, Da Solaria a Rinascita, «Rinascita», XXVIII, 19 luglio 1986, p. 40.
F. D’Intino, Ferrata, Giansiro, in Dizionario Biografico degli italiani, 100 voll., Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma, 1960-2020, vol. 46, 1996.
