La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

Oreste Macrì

Nel panorama del Novecento italiano, Oreste Macrì è una delle figure più profondamente ed esplicitamente influenzate dal pensiero di Vico. Laureatosi a Firenze nel 1934 proprio con una tesi dedicata al filosofo napoletano (Poesia e mito nella filosofia di G. Vico), Macrì si distingue sin da giovanissimo nell’ambiente fiorentino per le sue qualità di studioso e di critico militante, contribuendo (insieme, tra gli altri, a Carlo Bo) alla fondazione e alla teorizzazione dell’ermetismo fiorentino: un fenomeno, quello delle scuole poetiche, che avrebbe sempre meglio ricompreso, sulla scorta di un esempio storico drammatico e solenne come la poesia spagnola, in termini di «generazione» poetica. Si tratta di una teoria che deve molto alla distinzione operata da José Ortega y Gasset tra «epoche cumulative», senescenti, inclini all’omogeneità, ed «epoche polemiche», giovanili, inclini alla contestazione. Una distinzione dietro la quale occhieggia la teoria del «mondo fanciullo», ferino e intrinsecamente poetico, proposta da Vico nella sua Scienza nuova – definita da Ortega y Gasset «tanto geniale quanto ricca di sonnambulismo», capace di anticipare «tutti i suoi successori del XVIII secolo [...] ma come in sogno o in presentimento» (Idee per una storia della filosofia). 

L’ermetismo come avanguardia si colloca, per Macrì, in continuità con la grande “tradizione del nuovo” che, in Europa, aveva prodotto esperienze come quelle di Hölderlin e di Baudelaire. La sua assidua attività di collaboratore per riviste come «Campo di Marte» e «Letteratura» si muove, di conseguenza, attorno a questioni di poesia, conferendo a Vico un valore per nulla vicario ma, a tratti, congiunturale, a metà tra l’«antonomasia» e il «lasciapassare» critico. Così, in un saggio del 1939 dedicato ad alcune «ragioni non formali» della poesia, il nome del filosofo napoletano fa più volte la sua comparsa con funzioni, di volta in volta, differenti. Vico scandisce, ad esempio, le «tappe» di una storia della filosofia intesa come avventura della mente, ma connota anche Giuseppe Ungaretti come «poeta teologo, quasi in senso vichiano». 

La sua teoria del «senso comune» serve a motivare l’adesione del «poeta apriori» a una «nuova poetica («ha smascherato dentro di sé un gergo impuro, e vuole sorgere a una lingua, ha scoperto pudicamente il suo paese letterario inadeguato alla sua volontà di creare, e tende al vero paese dell’anima»), ma anche ad attaccare la filosofia di Benedetto Croce: «Se Benedetto Croce avesse riportato meglio alla natura del senso vichiano la sua intuizione», scrive Macrì, non avrebbe «sterilizzato l’opera vichiana e, in parte, la sua». D’altronde, in questi anni i suoi contributi vichiani sono molteplici e diversificati: in un saggio apparso nel 1943 su «La Ruota», Macrì discuteva «con un risguardo al Vico» l’arte della psicologia junghiana – esperienze non assimilabili, a suo dire («non esiste nessun rapporto tra cultura vichiana e cultura psicanalitica, tra “bestione” e “selvaggio”), ma tenute assieme da una certa aderenza alla «realtà del simbolo», e da un’idea di «salvezza» che risiede nella creazione. Il carteggio con Luciano Anceschi muove a confermare l’attenzione pressoché totale di Macrì al pensiero di Vico: in una di queste lettere, datata 11 dicembre 1945, Macrì afferma infatti che Vico è, a ben vedere, l’«unico esemplare della comprensibilità totale dell’umanità nei limiti dell’uomo».

Un’attenzione biunivoca, che si muove tra la filosofia della storia e la filologia del pensiero contemporaneo. Se di un utilizzo polemico del riferimento vichiano è ben visibile in un saggio composto per la rubrica Da «La Voce» a «La Ronda», e dedicato a Giovanni Boine – «Se Boine da Hegel si fosse rivolto a Vico», sostiene Macrì, «avrebbe trovato più chiare e perspicue fonti al suo concetto di storia come sintesi tra le guise e i tempi, tra il vero e il certo, tra razionalità e tradizione» –, una menzione in senso elogiativo (e anzi, quasi programmatico) del filosofo napoletano si ritrova in una recensione complessiva a tre pubblicazioni di Landolfi, nella quale Macrì espone la sua idea «di un’arte preromantica cui i nostri migliori si rifanno», e che va «da Campanella al Vico del pudore-fantasia», ossia «del ferino purificato dal senso sotto la cappa del cielo».


Bibliografia:

O. Macrì, Intorno ad alcune ragioni non formali della poesia, «Letteratura», III, 3, 1939, pp. 141-53).
O. Macrì, Giovanni Boine, «Letteratura», III, 4, 1939, pp. 123-41.
O. Macrì, Poesia e mito nella filosofia di G.B. Vico, «Archivio di Storia della Filosofia Italiana», VI,  3, 1937, pp. 258-282.
O. Macrì, L’estetica del Vico avanti la «Scienza nuova», «Convivium», XI, 4, 1939, pp. 423-458.
O. Macrì, Recensione a T. Landolfi, Dialogo dei massimi sistemi, La Pietra Lunare, Il Mar delle Blatte e altre storie, «Letteratura», IV, 2, 1940, pp. 144-8.
O. Macrì, L’arte nella psicologia di C.G. Jung con un risguardo al Vico, «La Ruota», aprile 1943, pp. 110-116.
S. Ramat, Oreste Macrì, in Letteratura italiana. I critici, V, Marzorati, Milano, 1969, pp. 3891-3904. 
E. Biagini, Aspetti della «realtà» del simbolo in Oreste Macrì, «Paradigma», VI, 1985, pp. 11-44.
G. Chiappini (a cura di), Bibliografia degli scritti di O. M., Opuslibri, Firenze, 1989.
A. Dolfi, Macrì, Oreste, in Dizionario Biografico degli Italiani, 67, 2006.
D. Collini, «L’altro, il dialogo, lo specchio che si rifrange». Carteggio Anceschi-Macrì (1941-1994), Firenze University Press, Firenze, 2020.