La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

Antonio Gramsci

In un saggio pubblicato nel 1976 in occasione dell’edizione Gerratana dei Quaderni del carcere, Eugenio Garin sosteneva una tesi ambivalente e sintomatica. Da una parte, affermava che Vico avesse operato in Gramsci solo indirettamente, e che i temi vichiani presenti nei Quaderni fossero solo quelli che erano ormai divenuti un patrimonio comune, quasi topoi, della cosiddetta «rinascita idealistica». Dall’altra, tuttavia, la stessa scelta di dedicare il saggio alla presenza di Vico in Gramsci, unita all’opportunità di «affrontare il problema della presenza di alcuni dei motivi più profondi della tematica vichiana in Gramsci» individuata in quelle pagine, è altamente significativa, perché mostra come l’«esitazione» tra un’interpretazione «forte» o «debole» del lascito vichiano sulla meditazione del pensatore e politico di Ales sia l’autentica chiave interpretativa di questo rapporto. 

È stato sostenuto che i pochi rinvii espliciti a Vico nell’opera di Gramsci sono generici e di seconda mano, tratti soprattutto dalla monografia di Croce (1911). Tuttavia, come sottolinea Pierre Girard, non solo lo studio di Croce ha un preciso intento all’interno del campo intellettuale dell’epoca, ma Gramsci è ben conscio della genealogia attraverso la quale riceve la lezione vichiana. I «luoghi» espliciti nell’opera di Gramsci fanno infatti del pensatore napoletano un’antonomasia critica: «astuzie della natura», «boria dei dotti», «verum ipsum factum» sono locuzioni che sottintendono il complesso dell’opera di Vico e, appena più in là, tutta una genealogia del pensiero italiano moderno. 

Se l’utilizzo di Vico come antonomasia critica segnala una precisa ricezione del suo pensiero – che è in primo luogo una costruzione del XIX secolo e dei primissimi anni del XX, sotto l’egida di figure come Francesco de Sanctis, Bertrando Spaventa, Vincenzo Gioberti e, appunto, Benedetto Croce –, è altresì evidente che la lezione vichiana in Gramsci non si ferma sulla superficie. Ed è proprio a questo riguardo che la critica gramsciana all’idea vichiana di provvidenza così come reinterpretata dall’idealismo di Croce mostra un primo, problematico risvolto. Proponendo la storicizzazione dell’idea di provvidenza, ossia la sua ricomprensione in termini materialistici, Gramsci si dimostra vichiano sul piano metodologico prima ancora che su quello retorico, raccogliendo il principio secondo cui «nature di cose è nascimento di esse in certe guise» (Degnità XIV). 

Ma è soprattutto sul concetto di praxis che l’influenza di Vico risulta determinante per Gramsci. In un passaggio significativo dei Quaderni, Gramsci riflette sulle differenze più eclatanti tra l’esperienza di Vico e quella di Hegel. «A quale movimento storico di grande portata partecipa il Vico?», si chiede retoricamente Gramsci: e se la risposta è, ovviamente, alcuno, subito dopo il pensatore sardo aggiunge che «la sua genialità consist[e] appunto nell’aver concepito un vasto mondo da un angoletto morto della “storia”». La differenza essenziale tra Vico ed Hegel, per Gramsci, sta tutta qui: tra «dio e la provvidenza» come astrazioni remote e Napoleone come «spirito del mondo», figura di una «storia della filosofia concepita come sola filosofia». 

In effetti, la necessità di «ricercare, analizzare e criticare la diversa forma in cui si è presentato nella storia delle idee il concetto di unità» di teoria e prassi – ovvero tra filosofia e storia – occupa quasi per intero il paragrafo dedicato nel Quaderno XVIII a questi due aspetti dell’attività umana. L’assunto da cui parte Gramsci è che, consapevolmente o meno, ogni concezione del mondo e ogni filosofia – Da San Tommaso a Leibniz – si è preoccupata di questo problema. È a questo riguardo che, come terzo tassello storico-critico, Gramsci nomina Vico in funzione anti-crociana. Ricordandone l’interpretazione contenuta nel «libro del Croce sul Vico», Gramsci confuta infatti lo svolgimento nel senso idealistico della teoria del «verum ipsum factum». Concepire (come fa Croce) il conoscere come un fare significa infatti, in questo senso, risolvere in una tautologia l’espressione vichiana, depotenziando ogni filosofia della prassi. L’identificazione tra i due momenti, semmai, va ricercata nel senso opposto, ossia nell’identificazione del pensare con il fare.


Bibliografia:

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