La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

Robin G. Collingwood: la presenza di Vico in Collingwood

Il confronto con il pensiero di Giambattista Vico accompagna tutta la riflessione filosofica e storica di Collingwood, ben oltre il momento della traduzione del La filosofia di Giambattista Vico di Benedetto Croce. Le tracce vichiane disseminate nelle sue opere non sono semplici omaggi, ma articolazioni vive di un pensiero che fa della storia un atto di immaginazione critica, guardando alla conoscenza come un processo profondamente umano. Collingwood riconosce in Vico non soltanto un anticipatore, ma un interlocutore diretto, un maestro spesso ignorato da cui apprendere un’idea di verità che nasce dalla prassi, dalla creazione e dalla coscienza storica.

Già in Speculum Mentis (1924) Vico è posto tra i padri del pensiero storico moderno: secondo Collingwood, fu lui uno dei grandi iniziatori dello storicismo critico poiché fu colui che, tra mito, poesia e memoria, intuì per primo che la storia è creazione umana, e in quanto tale è conoscibile solo attraverso la ricostruzione attiva del suo significato. Già qui emergono le premesse dell’attacco al razionalismo, che Collingwood svilupperà più tardi con maggiore sistematicità.

Nel saggio Oswald Spengler and the Theory of Historical Cycles (1927), di poco successivo alla traduzione inglese della monografia spengleriana, Collingwood oppone Vico alla concezione fatalistica della storia proposta da Spengler, rendendolo così la figura chiave per pensare alla storia come prodotto di trasformazioni imprevedibili e organiche, piuttosto che un insieme ciclico e predeterminato. La storia, per Collingwood come per Vico, non si ripete identicamente, ma evolve, muta, genera il nuovo.

Inoltre, Vico affascinò Collingwood anche sul piano estetico: il filosofo inglese riconobbe la portata rivoluzionaria del suo pensiero vichiano, specialmente in The Principles of Art (1938), dove allude a Vico e alle sue teorie che sottolineano le capacità dei fanciulli come «sublime poets». L’immaginazione infantile, il linguaggio poetico dei primitivi, la forza creativa dell’espressione naturale erano elementi che Vico aveva individuato come fondativi per il mondo primigenio della specie umana, e che Collingwood fa propri nella sua teoria dell’arte, definendoli come forma di conoscenza incarnata e necessaria.

Questa attenzione per il senso e per l’atto della creazione riemerge con chiarezza anche in The Principles of History (1939), dove Vico è citato per la sua originale visione del lavoro dello storico: «The important question about any statement contained in a source is not whether it is true or false, but what it means» scrive qui Collingwood, riecheggiando il principio del verum-factum. Lungi dal limitarsi a stabilire la veridicità di una testimonianza, il pensiero storico – come già Vico aveva intuito – si fonda sulla capacità di comprendere e ricostruire il significato profondo di ciò che è stato fatto. La storia, dunque, non si riceve: si rifà, si reinterpreta, si immagina.

Questa linea trova la sua maturazione teorica in The Idea of History (1946), opera postuma in cui Collingwood sintetizza la sua visione e ribadisce il ruolo fondativo di Vico, considerabile come il volume che non poté mai terminare di scrivere. Nella lezione dedicata a Vico, del suo pensiero viene sottolineata la portata rivoluzionaria: Vico diventa l’alternativa al modello conoscitivo cartesiano, fondato invece su evidenza deduttiva e astrattezza. Contro la chiarezza meccanica, Vico (e Collingwood con lui) afferma la verità storica come verità del fare, della costruzione, della memoria e del linguaggio.

Pertanto, Vico consente a Collingwood di arrivare a teorizzare una forma di sapere radicata nella storicità, nella fantasia e nella responsabilità interpretativa. È attraverso Vico che Collingwood immagina una verità non riducibile alla razionalità astratta, quanto più immersa nella complessità dell’umano, nella profondità del tempo, nella poesia della mente.