La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

Robin G. Collingwood: introduzione

Storico e filosofo della storia, raffinato esegeta del pensiero idealista e teorico dell’arte, Robin George Collingwood (1889-1943) è una delle figure più affascinanti della filosofia britannica del Novecento. La sua opera si muove nel solco dell’idealismo anglosassone, ma si nutre di suggestioni che travalicano i confini nazionali, intrecciandosi con la tradizione italiana e tedesca.

Si formò alla Rugby School e subito dopo divenne Fellow del Pembroke College di Oxford, dove compì gli studi universitari. Sin dal diploma a pieni voti in Storia antica, filosofia, latino e greco alla Rugby School dimostrò un precoce interesse per il campo umanistico, che approfondì allo University College di Oxford. Fu proprio in terra oxoniense che Collingwood incontrò Vico: lì studiò sotto la guida di Edward Carritt, John Alexander Smith e Henry Joachim, studiosi legati alla tradizione idealista britannica e interessati alla filosofia italiana, conoscitori dell’opera crociana. 

A Carritt, ad esempio, si deve la traduzione in inglese di alcuni passi sparsi dalla Scienza nuova, a riprova dell'interesse per la filosofia vichiana in terra britannica; Smith, invece, fu uno tra i primi filosofi inglesi che, all’inizio del XX secolo, introdussero l’idealismo italiano nel dibattito filosofico della loro patria, già a partire dalla sua lezione del 1910 sulla filosofia di Croce. Con i suoi maestri, Collingwood strinse un sodalizio intellettuale che andava anche al di là delle aule e della pura accademia; furono proprio loro ad avviarlo alla riflessione su storia e conoscenza, consigliandogli, negli anni Dieci del Novecento, di cimentarsi nella tempestiva traduzione di La filosofia di Giambattista Vico di Croce, uscito per Laterza nel 1911. In questo orizzonte di ricerca, l’incontro con Vico segnò per Collingwood una svolta decisiva: fu un momento di rivelazione filosofica che avrà un’eco nient’affatto trascurabile sul suo pensiero, oltre che sull’intera ricezione vichiana nell’Europa del primo Novecento.

Guardando alla sua produzione, emerge una chiara traccia vichiana di base: al di là della traduzione del volume crociano, nei suoi scritti Collingwood sviluppò una riflessione originale che da un lato importava Vico nel dibattito filosofico anglosassone, e dall’altro contribuiva a rinnovarne la ricezione, collocandolo nel cuore della riflessione novecentesca sulla Storia.

La filosofia vichiana è in chiara assonanza con il sapere di Collingwood, come dimostra ad esempio il titolo del suo New Leviathan, oppure il suo ampio interesse per lo scibile umano: fu eminente studioso di archeologia ma si occupò anche di filosofia dell’arte, epistemologia e filosofia della storia, dando alle stampe diversi volumi, pubblicando numerosi saggi e lasciando una grande quantità di appunti incompiuti (poi riordinati dai suoi allievi più vicini).

È merito di Collingwood aver riportato l’attenzione su Vico, grazie al quale arrivò a non vedere la storia come una mera raccolta di fatti, bensì come un processo in cui il pensiero umano si riflette su se stesso, ricostruendo le intenzioni e le idee che animano il passato. L’idea che la storia sia un atto di auto-comprensione dell’umanità, e che il pensiero storico sia intimamente connesso alla coscienza del presente, è profondamente vichiana, e trova in Collingwood uno dei suoi più brillanti epigoni.