La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

Elio Vittorini

L’insistenza sul pensiero e l’opera di Vico costituisce il trait d’union tra le differenti tappe del percorso intellettuale di Vittorini. Già in un intervento polemico apparso sul «Bargello» nel 1937, Vittorini ricordava Giambattista Vico nel novero degli autori che, nella sua adolescenza e prima giovinezza, avevano potuto fare parte di una vera e propria «cultura popolare» – e tanto più popolare in quanto «tutti avevano la persuasione che “bisognava” essere colti». In quell’occasione, Vittorini ricordava «con rimpianto» ma in maniera tutto sommato dimessa la «famosa “Biblioteca Universale” della Casa Sonzogno che raccoglieva in un migliaio di volumetti le opere più disparate dell’ingegno umano», tra i quali figuravano «la Scienza Nuova del Vico e il Faust di Goethe, i poemi di Puškin e il Corano, Boccaccio e Baudelaire». Fare riferimento all’edizione Sonzogno del capolavoro vichiano – particolarmente diffusa in Sicilia, come testimonia il suo possesso anche da parte di Luigi Pirandello – significava proporre una ricezione alternativa, estranea sia alla mediazione di Benedetto Croce – intrapresa tra l’Estetica (1902-1908) e La filosofia di G.B. Vico (1911) – sia al testo della Scienza nuova stabilito da Fausto Nicolini per l’edizione laterziana (1911-1916). 

Quando, nel 1947, Palmiro Togliatti entrerà in polemica con la rivista «Il Politecnico», accusandola di un «enciclopedismo» avverso al popolo, Vittorini tornerà sulle parole di dieci anni prima, rivendicando l’umanesimo integrale che animava le pubblicazioni della rivista e difendendo la sua giovanile lettura di Vico, svolta insieme a un gruppo di sodali autodidatti: «Prendevamo, ad esempio, La Scienza Nuova del Vico e se alla prima lettura non comprendevamo nulla, leggevamo una seconda volta e comprendevamo qualche cosa, leggevamo una terza e comprendevamo di più… E quei miei compagni di studi trovavano tempo di far questo dopo otto ore ogni giorno di lavoro manuale. Né erano dei geni». 

Ma Vittorini attinge all’opera di Vico non soltanto in termini critico-teorici, bensì anche narrativi. È il caso del romanzo Il Sempione strizza l’occhio al Frejus (1946), ambientato nel secondo dopoguerra in una casa nell’allora periferia di Milano («col bosco di Lambrate di fronte alla cucina») e privo di una vera e propria trama: chi dice io nel testo racconta, in maniera evocativa e simbolica, la quotidianità della propria famiglia – la madre e suo marito, i numerosi fratelli, spesso affamati, e soprattutto l’ingombrante figura del nonno. Secondo Giuseppe Lupo, il romanzo «aspira a essere una narrazione intrisa di richiami alla lezione di Giambattista Vico: e nel XVII capitolo, l’utilizzo dell’espressione «infanzia degli uomini» rappresenterebbe uno dei luoghi di emersione più evidenti di questo debito. Il romanzo intrattiene con la Scienza nuova un rapporto profondo e stratificato, che va dal livello figurale – il personaggio del nonno, uomo vecchissimo, dall’appetito formidabile, dal passato pressoché mitico e, significativamente, quasi muto – un riferimento alla trafila etimologica che Vico stesso individuava tra i termini mythos e mutus – che pare abbia contribuito, in qualità di muratore, alla costruzione di alcune tra le più importanti opere pubbliche, dai trafori del Sempione e del Frejus al Duomo di Milano fino al Colosseo e alle Piramidi. In questo senso, il nonno rappresenterebbe la forza esercitata dal passato e quella, solo apparentemente opposta, che muove la storia verso il futuro. Ma un secondo livello, tematico, accenna attraverso le vicende della famiglia e all’uso di parole-simbolo («pane», «vino», «villa», «danza»), al transito descritto da Vico dalle «arti del necessario» (produzione del pane e del vino) a quelle dell’«utile» (pastorizia), del «comodo» (architettura urbana) e, infine, «del piacere» (danze). In questo senso, il nonno avrebbe in particolar modo contribuito a quest’ultimo transito (Riepilogamenti della storia poetica). 

La stessa figuralità caratterizza anche Le donne di Messina (1949), nel quale viene fatto un particolare utilizzo della teoria vichiana delle tre età (degli dei, degli eroi, degli uomini): l’avanzamento della storia è ricostruito infatti dal narratore sostituendo, alla periodizzazione del filosofo napoletano, lo sviluppo dei mezzi di trasporto utilizzati («età del carretto», «età delle carriole», «età dei camion»). 

Vico, in virtù di questa devozione giovanile, assurge per Vittorini a vero e proprio «nome-mito», al quale legare indissolubilmente le idee di progresso e civiltà. Di questa ricezione testimonia una certa «concezione teologica della cultura» – in grado di investire né di trasformare l’umano, e non solo di consolarlo –, nonché l’utilizzo cospicuo di simboli e mitologie delle origini.

 
Bibliografia:

E. Vittorini [firmato Abulfeda], Elogio della cultura popolare, «Il Bargello», IX, 12, 17 gennaio 1937, p. 3 , poi in Id., Letteratura arte società, Articoli e interventi 1926-1937, R. Rodondi (a cura di), Torino, Einaudi, 2008, p. 1029.
E. Vittorini, Politica e cultura. Lettera a Togliatti, «Il Politecnico», XXXV, 1947, pp. 2-5, 105-106.
E. Vittorini, Le donne di Messina (1949, 1964), Bompiani, Milano, 2019.
R. Rodondi, Il presente vince sempre. Tre studi su Vittorini, Sellerio, Palermo, 1985.
G. Lupo, Vittorini Politecnico, Franco Angeli, Milano, 2011.
G. Lupo, Giambattista Vico a Lambrate, in E. Vittorini, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus (1947), Bompiani, Milano, 2019, pp. 5-10.
M. R. Mastropaolo, Scrittura e riscrittura nei romanzi di Elio Vittorini: il caso delle «Donne di Messina», tesi di dottorato (relatore: A. Cadioli), Università degli studi di Milano, a.a. 2017/2018.