La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

Cesare Pavese

In un’intervista radiofonica risalente al giugno 1950, Cesare Pavese, interrogato su quali siano i suoi scrittori preferiti, cita Gian Battista Vico come il «narratore di un’avventura intellettuale, descrittore ed evocatore rigoroso di un mondo – quello eroico dei primi popoli» che da molto tempo affascina lo scrittore piemontese. Il filosofo napoletano viene nominato in uno degli ultimi interventi pavesiani, di modo che tale menzione assume un significato affatto particolare. In effetti, Vico ricopre un ruolo centrale nello sviluppo della poetica di Pavese almeno a partire dall’agosto del 1938, quando la prima menzione esplicita sul Mestiere di vivere testimonia una conoscenza che appare già piuttosto approfondita, e che si sviluppa nell’arco di tutta l’esperienza pavesiana secondo tre direttive principali, a loro volta profondamente connesse tra loro.

Prima di queste è quella che riguarda il mito. Il pensiero di Vico rappresenta cioè il principale referente teorico per lo sviluppo, soprattutto a partire dal 1943 (periodo in cui Pavese rilegge intensamente la Scienza Nuova), di quella teoria del mito che sarà alla base di opere come Feria d’agosto e Dialoghi con Leucò, nonché di interventi teorici come Il mito. La rivalutazione gnoseologica del linguaggio mitico, che Vico realizza soprattutto nel libro II della Scienza Nuova, permette a Pavese di intendere il mito come il linguaggio maggiormente adatto ad esprimere i contenuti più profondi dell’umanità, che proprio attraverso l’esercizio originario della fantasia ha dato origini a quelle storie mitiche a cui, anche nella modernità, il poeta può e deve tornare.

Riattivare il potenziale euristico del mito diviene possibile poiché il poeta emerge come colui che – in ciò consiste la seconda direttiva – è in grado di riattivare quella modalità di esperire e conoscere il mondo tipica dell’infanzia. La memoria, cioè, permette di ritornare a quel momento originario in cui il mondo si è rivelato per la prima volta nella sua assolutezza, alla quale si può tornare proprio attraverso le storie mitiche. Nelle profondità della psiche di ogni essere umano è dunque presente la medesima fiamma dell’origine da cui è scaturito il pensiero mitico di tutta l’umanità: in questo modo Pavese riscrive e rielabora per la propria poetica (tesa, miticamente, alla rappresentazione assoluta del reale – e in particolare dei luoghi conosciuti durante l’infanzia) il nesso vichiano tra filogenesi e ontogenesi.  

Strettamente legata a queste due componenti appare la terza e ultima realizzazione dell’influenza vichiana, che ha a che fare con l’operato editoriale di Pavese. Come chiaramente rivendicato in una polemica con Franco Fortini, infatti, la direzione, insieme a Ernesto de Martino, della celebre “Collana Viola”, si pone nel solco di Vico, ovvero nella convinzione – al netto delle particolarità di ogni autore e opera pubblicata – che fenomeni come magia, mito e partecipazione mistica conservino una «perenne vitalità nella sfera dello spirito», e cioè che rappresentino, proprio come ricostruito dall’antropologia storica di Vico, momenti di tale centralità nella storia (e nel presente) dell’uomo da meritare di essere indagati da scienze quali antropologia, mitologia e storia delle religioni.


Bibliografia:

C. Pavese, Il mestiere di vivere 1935-1950, M. Guglielminetti, L. Nay (a cura di), Einaudi, Torino, 1990.
C. Pavese, Il mito, in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino, 1968, pp. 315-321.
R. Gasperina Geroni, Mito e origine. Vico nella letteratura italiana tra le due guerre, «Italian Studies», LXXIV, 3, 2019, pp. 278-287.
K. Kay Jørgensen, L’eredità vichiana nel Novecento letterario. Pavese, Savinio, Levi, Gadda, Guida, Napoli, 2008, pp. 153-297.
M. Palumbo, Pavese, Vico e il selvaggio, in «Revue des études italiennes», LXV, 1-4, 2019, pp. 256-265.