La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano
«transition»: Stuart Gilbert
Il saggio Prolegomena to ‘Work in Progress’ firmato da Gilbert, contenuto nell’Exagmination del 1929, apparve originariamente su «transition» nel 1928 solo come A Prolegomenon to ‘Work in Progress’, in forma ridotta, senza cioè diversi riferimenti al testo, né glossari e commenti poi aggiunti nella seconda redazione. In esso, Gilbert dà prova delle sue doti critiche e traccia un'affascinante connessione tra il pensiero filosofico di Giambattista Vico e l’opera di James Joyce, con particolare attenzione al Work in Progress. Nonostante la difficoltà del testo joyciano, che spesso disorienta il lettore con la sua caotica complessità, Gilbert sottolinea che questa sfida può essere colta riprendendo il pensiero di Vico, riferimento cruciale per comprendere la struttura narrativa del romanzo. In effetti, per Gilbert l’opera di Joyce è una realizzazione concreta della concezione vichiana della storia, intesa come un processo ciclico e universale che non dipende da eventi isolati o geniali, quanto più da un movimento irrefrenabile e continuo dell'umanità.
Questo approccio si fonda sul principio vichiano del verum/factum, sulla scia del quale Gilbert puntualizza che la storia non è una successione di eventi disgiunti, ma una totalità che si esprime attraverso miti, simboli e figure eroiche. Questi non rappresentano solo una cultura specifica, bensì l’essenza del pensiero collettivo e universale: nel Work in Progress Joyce riprende e amplifica questa visione della storia, dove il passato e il futuro si intrecciano in un’unica entità, e la storia diventa una forza che si alimenta tanto del contributo dei singoli individui, quanto di una loro più ampia e universale connessione.
Il saggio affronta anche il nodo del linguaggio e della sua origine, un tema centrale sia per Vico sia per Joyce. Anche Gilbert, pur seguendo indirettamente la traccia del pensiero vichiano, riscrive concetti fondamentali della Scienza nuova sulla falsariga della mediazione micheletiana. Un esempio emblematico è la nascita della «Morale poetica» (II, Della morale poetica, SN44ISPF, p. 149), che Vico espone con ampie digressioni, ma che Michelet e Gilbert rielaborano in forme più concise, mettendo in evidenza concetti come la vergogna e il legame sociale, legati all'emergere della famiglia e della virtù umana. Grazie a Michelet, Gilbert riesce a riportare la filosofia vichiana nel contesto del pensiero moderno, evidenziandone l’attualità.
La riflessione si estende anche alla natura linguistica dell’opera di Joyce, la quale, secondo Gilbert, realizza una "storia ideale" della civiltà umana («ideareale», avrebbe scritto Joyce) che rispecchia la visione vichiana della storia come sintesi universale. Joyce, con la sua sperimentazione linguistica, diventa portavoce dell'idea vichiana che la lingua nasconda in sé il suo significato primordiale. La parola, nelle sue origini più arcaiche, non è solo uno strumento di comunicazione, ma una forza che evoca emozioni universali, come quelle descritte da Vico nelle «interjezioni» (II, Corollarij d’intorno all’origini della locuzion poetica, SN44ISPF p. 133). Queste prime espressioni umane, formate dal «conato» delle passioni (I, Del metodo, SN44ISPF p. 91), sono le radici del linguaggio stesso e della cultura.
In conclusione, Gilbert spiega che il legame tra Vico e Joyce emerge come una costante ricerca di un linguaggio che non solo racconta la storia, ma la interpreta e la ricostruisce: nel Work in Progress, Joyce riscopre la genesi della lingua e del mito così come Vico l’aveva teorizzata. La metafora, per esempio, diventa il mezzo per esprimere il senso profondo della storia e dell’esperienza umana, mettendo in evidenza come la scrittura di Joyce, pur così complessa e innovativa, non sia che il riflesso di una visione della storia e del linguaggio che trova le sue radici nel pensiero di Giambattista Vico.
