La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano
“Finnegans Wake”: la «storia ideareale»
La convergenza tra Vico e Joyce si manifesta con straordinaria evidenza nella concezione della Storia come processo ciclico e immanente, un'idea centrale tanto nella Scienza nuova quanto in Finnegans Wake. Nel secondo libro del romanzo joyciano, durante una parodica lezione scolastica tenuta dai gemelli Shem e Shaun insieme alla sorella Issy, emerge un esplicito riferimento alla "Storia Ideal’Eterna" vichiana (I, Degli elementi, SN44ISPF p. 75), il grande affresco teorico su cui si dispiega il tempo delle nazioni. Joyce si appropria di questo concetto, lo parodizza nelle parole dei due gemelli e lo riformula, postulando l’esistenza di una storia non puramente ideale, capace di realizzarsi nella concretezza dell’azione umana: una «ideareal history», con i suoi «probapossible prolegomena» (262, 3-8).
Attraverso l’assunzione del principio vichiano del verum et factum convertuntur (in realtà postulato da Vico nel De antiquissima Italorum sapientia, ma ugualmente trattato ne La filosofia di Giambattista Vico di Croce), Joyce costruisce un’opera in cui la narrazione stessa diventa fatto storico. La Storia non è solo narrabile, ma esiste proprio perché raccontata; è «as practical as […] predicable» (269, 13), attendibile e affidabile per il semplice fatto di essere stata detta, resa immanente tramite il linguaggio. La Storia è in corso d’opera, è un Work in Progress, per riprendere il nome che Joyce diede al suo romanzo prima di comunicarne pubblicamente il titolo ufficiale: anche in Finnegans Wake, nel momento stesso della lettura, la «cyclewheeling history» (186, 2) si realizza testualmente e metatestualmente, prosegue dentro e fuori delle pagine del libro, nel momento stesso in cui il romanzo è consumato (pur senza mai terminare).
Anche in Finnegans Wake dunque, come nella Scienza nuova, l’umanità attraversa fasi di crescita, declino e rinascita. Tale ciclicità è incarnata dal personaggio di Finn MacCool, il gigante mitologico irlandese che, nella leggenda, dà origine alla collina di Howth, un luogo che per Joyce diventa culla della civiltà (di Dublino come di tutto il mondo). Ma egli è anche Tim Finnegan, il muratore della ballata popolare da cui il romanzo trae il titolo, così come Humphrey Chimpden Earwicker, una delle incarnazioni di H. C. E., ma anche oste protagonista dell’opera. Questo continuo rinnovamento delle figure mitiche e storiche si traduce in una «mutuomorphomutation» (281, 11-13), un incessante ciclo di metamorfosi che dà alla Storia universale di Joyce un carattere eminentemente vichiano. Pur evolvendo, essa torna sempre su se stessa.
Come Vico, Joyce intende offrire un ritratto totalizzante dell’umanità, intrecciando episodi, lingue e simboli che rimandano alla memoria collettiva. Nella sua scrittura, il flusso della storia si fa parola, e la parola è, al contempo, un atto creativo e conoscitivo. Il lettore di Finnegans Wake si trova così immerso in una narrazione che non è solo un racconto, ma un’esperienza diretta della Storia in movimento.
L’attenzione di Joyce per la dimensione linguistica è un ulteriore elemento di affinità con Vico: nella Scienza nuova, il filosofo napoletano sottolinea il ruolo primario del linguaggio nella costruzione del sapere e della coscienza storica. Parimenti, anche il Wake si configura come un’opera che mette alla prova i limiti della parola scritta, sovrapponendo lingue, suoni e significati per dar forma a una narrazione che si sviluppa a mo’ di palinsesto, così come la Storia. Questo procedimento, che richiama la teoria vichiana dell’origine poetica del linguaggio, trasforma il testo joyciano in un laboratorio di senso, alla cui costruzione il lettore è chiamato a partecipare attivamente.
In questo modo, Joyce non solo riprende Vico, ma ne rinnova le intuizioni in un contesto modernista, dimostrando come la riflessione sulla ciclicità della Storia e sulla natura del linguaggio rimanga centrale nella comprensione del divenire umano.
