La ricezione di Vico e il primo Novecento italiano

Carlo Carrà

«Il vero poetico è un vero metafisico a petto del quale il vero fisico qualora non gli si conformi deve ritenersi per falso». Lievemente modificata e adattata al linguaggio corrente, questa è la citazione vichiana, tratta dalla spiegazione della degnità XLVII del primo libro della Scienza nuova, che Carlo Carrà pone in esergo alla seconda edizione (1945) del saggio La pittura metafisica del 1919. 

Quasi un manifesto – certo tardivo, per un movimento che già nel 1919 può dirsi disciolto – La pittura metafisica difende, in opposizione a una mimesi naturalistica che disperde le sue energie «nella analisi episodica del reale esterno e frammentario», una concezione della pittura come «seconda realtà», in grado di rendere visibili gli aspetti reconditi e misteriosi della natura. Nel sostenere questa tesi, Carrà si avvicina a una delle teorie più influenti nella storia del pensiero estetico, quella che riguarda la natura ideale della rappresentazione artistica. Si tratta della posizione – che si fa convenzionalmente risalire all’Orator ciceroniano (Orat. II, 7-10) – secondo cui la bellezza delle forme artistiche sarebbe determinata, non dalla loro aderenza a un modello fisico, ma dall’accordarsi a un’idea di bellezza che è presente nella mente dell’artista e a partire dalla quale egli plasma la materia.

È certamente in questa chiave che va interpretato il rimando a Vico, il quale si riallaccia alla stessa tradizione di pensiero per descrivere come l’attività poetico-creativa dia luogo a sintesi fantastiche, alternative rispetto al piano della semplice esperienza, in confronto alle quali la pluralità dei dati naturali – da cui esse sono pur tratte – appare falsa. In maniera analoga per Carrà, come chiarito anche nella sua autobiografia del 1943, l’identificazione di poesia e metafisica non discende da una riproduzione materiale della realtà ma dalla capacità della pittura di sottrarre le cose dalle contingenze, «conferendo loro un valore assoluto» e attuando «in forme stabili le variazioni essenziali della vita».

L’influenza esercitata da Vico su Carrà non è però circoscrivibile al solo ambito teorico. Maurizio Calvesi nel saggio La Metafisica schiarita ha infatti ipotizzato che la Dipintura di Domenico Antonio Vaccaro, l’incisione anteposta al frontespizio della Scienza nuova e dettagliatamente descritta dello stesso Vico nella sua introduzione all’opera, abbia costituito un modello per alcuni dipinti del periodo Metafisico. Se una certa affinità iconografica è riscontrabile con La musa metafisica – una trasfigurazione della contemporanea esperienza bellica – l’intuizione di Calvesi sembrerebbe ancor più pertinente per Madre e figlio, tela che in effetti richiama i motivi geometrici e la disposizione dei simboli propri alla Dipintura. Tali analogie e rime visive permettono però, allo stesso tempo, di mettere in luce la differente prospettiva storica e filosofica che anima le due immagini: da un lato, la vocazione significante e la dinamicità barocca dell’incisione vichiana, dall’altro la perturbante staticità e l’atmosfera onirica che pervade il dipinto Metafisico.


Bibliografia:

C. Carrà, Pittura Metafisica, Vellecchi, Firenze, 1919 (seconda edizione, Il Balcone, Milano 1945).
Id., La mia vita, Longanesi, Milano, 1943.
M. Calvesi, La metafisica schiarita. Da de Chirico a Carrà, da Morandi a Savinio, Feltrinelli, Milano, 1982.